La festa di Venere nel mese di Marte – Il femminismo che vorrei

Ho avuto una grande fortuna nella mia vita: sono nata in una famiglia in cui nessuna diversità è stata mai neanche sottolineata. Abbiamo sempre parlato di persone, mai di maschi, femmine, eterosessuali, omosessuali, dottori, contadini, borghesi, drogati, normali, handicappati, strani. Non sono stata cresciuta a compartimenti stagni (e forse è per questo che poi ho passato la vita a cercare un modello di mondo e qualche legge che costituisse una certezza, ma questa è un’altra storia).

I genitori di mio padre erano una coppia fuori dal tempo, unita da un amore profondo e da un ancor più profondo rispetto. Mio nonno era un uomo esile, canuto, taciturno e tranquillo, profondamente buono ma a tratti scosso da una rabbia isterica, bagaglio a spalla di una vita difficile. Sua moglie, al contrario, era un donnone vulcanico dalla risata contagiosa e l’abbraccio facile, amorevole e combattente, forte e gentile come il miglior abruzzese. Qualche tempo fa avrei detto che era lei a comandare in famiglia, ma mi sbagliavo: nessuna decisione veniva presa senza che ci fosse il democratico consenso di entrambi, nel nucleo familiare ricoprivano ruoli differenti e differentemente svolti ma ugualmente importanti, erano in grado di scambiarsi gesti sinceri d’amore e affetto e mantennero fino alla vecchiaia ognuno la propria indipendenza e i propri spazi senza mai prevaricare l’uno sull’altro, né per ruolo, né per carattere.

Lei lavorava, guidava, gestiva il denaro e contemporaneamente accudiva i figli e poi i nipoti con immenso affetto. Non aveva bisogno di architettare strategie per sentirsi al pari di suo marito o di qualunque altro uomo: non vestiva da maschio, non parlava da maschio, non c’era in lei il senso di rivalsa di chi sa di essere inferiore e vuole cambiare la propria condizione. Era semplicemente consapevole di non esserlo, e per questo non si sottometteva né sottometteva gli altri. Ho passato la mia infanzia e la mia adolescenza conoscendo l’assoluta normalità di essere diversi per natura e uguali per valore.

Allo stesso modo mia madre e mio padre hanno vissuto e vivono in assoluta parità: due caratteri diversi, due ruoli diversi, nessuno dei due ha mai deciso per entrambi.

Per tutta la vita ho visto le mie figure di riferimento comportarsi e trattarsi vicendevolmente da pari. In un mondo in cui erano frequenti le famiglie costituite da padri dal pugno di ferro e madri amorevoli e tranquille, vedevo allo stesso modo le mie, di famiglie, in cui i caratteri erano diversamente assortiti e regnava il rispetto. Pensavo pertanto, con la semplicità deduttiva di chi conosce poco il mondo, che fosse così in ogni famiglia, e che l’assegnazione casuale dei caratteri non determinasse il alcun modo la superiorità di un membro su un altro.

Non ho mai sentito i miei genitori dirmi “non vestirti da maschio, non parlare come un maschio, stai seduta da femminuccia, gioca con le femminucce, questo non è un cartone animato da femminucce, devi rientrare prima del tuo amico perché tu sei femmina e lui è maschio, non andare in giro da sola coi maschi perché poi la gente cosa pensa, non dire a nessuno che hai il ciclo, nascondi gli assorbenti, fammi controllare se ti sei sporcata, sei troppo scollata poi pensano che sei disponibile, cambi troppi fidanzati, scegli una facoltà da femmina, fai un lavoro da femmina”. Mai, mai, mai, nemmeno una volta, né loro né nessun altro.

Quando sentivo quelle frasi uscire dalla bocca di qualche amica o di qualche genitore mi veniva da ridere, ma che assurdità, saranno un po’ tocchi, dai. Con gli amici, a scuola e ovunque non ho mai fatto comunella con le femmine, non ho mai sentito la necessità della separazione o della ghettizzazione, non ho mai temuto di rapportarmi ai maschi, non ho mai avuto paura di parlare né ho mai pensato a nessuna cosa in termini di “è una cosa da maschi/è una cosa da femmine”. Mio nonno sapeva cucire, mia nonna sapeva piantare i chiodi e liberarsi dei topi, mia madre sa usare il trapano e camminare coi tacchi sui sanpietrini, e io non ho mai sentito alcuna differenza né sono mai stata in grado di percepire sulla mia pelle la discriminazione. Non ho mai preso in considerazione l’idea che mi trattassero in un certo modo perché donna. Potevo essere antipatica, poco conforme, poco sociale, qualunque ragione logica poteva essere alla base del mio essere messa da parte, poco considerata o sbeffeggiata. Ma l’organo sessuale che avevo fra le gambe, o il modo in cui gestivo il mio genere d’appartenenza? Impossibile.

Poi sono arrivata all’università, per giunta nell’ambiente maschile per eccellenza, quello dell’ingegneria. Ho conosciuto professori capaci di dire in faccia agli studenti che le donne valgono meno, che non saranno mai valide come i colleghi uomini,  che finché porteranno la gonna nessuno  le prenderà sul serio, che stanno bene nel corso di gestionale perché l’economia è l’unica cosa che fa per loro, ancor meglio se domestica. Li ho sentiti dire “tu e il tuo collega siete andati ugualmente bene, ma tu sei donna e quindi se a lui 30, a te 29”.

Sono cresciuta e ho conosciuto la discriminazione. Per i colleghi uomini la mia opinione non contava nulla e la stessa opinione espressa da un altro uomo era oro colato. Ho litigato, mi sono infuriata mentre dentro di me si mescolavano rabbia e incredulità. Ho iniziato a sentire che mi veniva richiesta una sorta di “energia di attivazione”: dovevo dimostrare, con un piccolo ulteriore boost, di essere capace di arrivare al livello minimo di capacità nonostante fossi donna per poter essere successivamente comparabile con gli uomini.

E poi le mani sul sedere in autobus, le amiche che prendevano le prime sberle, i casi di violenza sessuale commentati con “chissà com’era vestita”, “prima fate le troie e poi vi lamentate” e similarità che conosciamo, conoscete tutti molto bene.

Oggi è l’8 Marzo e ne abbiamo ancora un disperato bisogno.

Non di fiori, se non li amiamo, né di regali o contentini. Non abbiamo bisogno di elenchi di figure femminili grandi e capaci come fossero scimmie che hanno imparato a contare. Non abbiamo bisogno di spogliarelli o di stupidaggini, né di sentirci dire banalità. Non siamo speciali, dolci, gentili, premurose. Alcune lo sono, altre no, proprio come gli uomini, proprio come le persone. Non abbiamo bisogno di fare i maschi per sentirci al loro livello, non sono le differenze biologiche a stabilire la differenza di valore. Ognuno fa quel che vuole, ognuno fa quel che gli piace, ogni persona,ogni uomo e ogni donna, perché ogni PERSONA è uguale.

Abbiamo bisogno di imparare che la violenza è sbagliata in ogni caso, ma la violenza perpetrata verso qualcuno solo perché questi è femmina, omosessuale, nero, giallo, rosso, verde o blu, è ancora più sbagliata.

Abbiamo bisogno di pari diritti e pari salari. Pari. Salari.

Abbiamo bisogno di uno stato, di una scuola e di famiglie che insegnino alla loro prole che non sono le donne a non dover provocare, ma i maschi a dover capire che nessuna donna può essere toccata o comandata contro il suo volere. Abbiamo bisogno che si smetta di insegnare che la donna sta a casa a pulire e il marito a lavorare, ma che “nonostante” questo la donna va rispettata. Dobbiamo insegnare, ed è una necessità urgente, che i ruoli possono essere divisi, scambiati, palleggiati, che ognuno è come è, indossa ciò che vuole, dice quel che vuole, ha il linguaggio che vuole, fa il mestiere che vuole e che ogni persona ha il diritto di essere rispettata in quanto tale. Che ognuno, uomo o donna, appartiene a se stesso.

Dobbiamo diventare consapevoli di essere uguali. Auguro a tutti questo femminismo, quello profondo che non scorge differenze, non punta il dito, non deve più dimostrarsi ma solo affermarsi. E sono certa che da quel punto in poi tutto il resto verrà da sé. La violenza di genere, la violenza verbale, l’indignazione per un seno scoperto da una scollatura e l’IVA sugli assorbenti come beni di lusso, tutto questo verrà spazzato via dall’educazione e dalla consapevolezza che diverso ruolo o diverso carattere non significa diverso valore.

Questa è la nostra battaglia, questa è la battaglia di oggi. Auguri a tutti quelli che lo sanno già e soprattutto a chi deve ancora impararlo.

“Passengers” ovvero l’ennesimo fallimento della fantascienza

Due cose mi stimolano la voglia di scrivere: i complimenti e i film di merda.

Avevo già raggiunto la soglia della disperazione quando Christopher Nolan decise di risolvere un paradosso temporale in un modo originale e creativo, cioè con un loop in cui ogni evento è contemporaneamente causa e conseguenza di sé stesso, una soluzione che in fondo fino a quel momento era stata messa in scena solo 36 miliardi di volte. Non contento il buon Chris ci ficcò in mezzo a spintoni e manate anche l’amor che move il sole e l’altre stelle, anche questa avanguardia pura. Già lì fu difficile resistere alla tentazione di chiudermi dentro casa a riguardare “Ritorno al futuro” fino a morte sopraggiunta: se non l’ho fatto il merito è stato tutto di “Predestination”. Non l’avete visto? CHE STATE FACENDO ANCORA QUI?

Poi domenica sera ho detto “va bene dai, andiamo a vedere questa roba di cui parlano tutti, in fondo Jennifer Lawrence non accetterebbe mai di fare una cagata, sarà carino”. Illusa. Povera piccola cinefila illusa.

Sarò breve.

Il pianeta Terra e i suoi abitanti hanno imparato a viaggiare alla metà della velocità della luce, e per questo hanno avviato un business: caricano cinquemila cristiani per volta in sonno criogenico e li sparano a centocinquantamila km al secondo in mezzo a piogge di asteroidi per spedirli sul pianeta Sarcazzo II, che è tipo la terra ma prima della rivoluzione industriale e dei vegani crudisti. Un ameno paradiso terr… ehm, sarcazzestre dove si può cominciare una nuova vita, civilizzando il posto e rendendolo così, di fatto, uguale a quello abbandonato. Molto bene. Inoltre la navicella spaziale si chiama Avalon: perché non Nabucodonosor?

Mentre la navicella sta viaggiando ad una velocità tale da bucare dieci metri di piombo come fosse una sparapunti su un foglio di carta, sfortunatamente si imbatte in una fascia di meteoriti. Beh, metà della velocità della luce, li trapasserà senza nemmeno fare schegge, no? SI’ E POI NOI COME LO FACCIAMO IL FILM? L’asteroide grosso grosso manda in vacca i sistemi elettrici della navicella e il povero Jim, un ingegnere che guadagna meno di quanto guadagnerebbe se facesse l’elettrauto, viene svegliato dal suo sonno criogenico: dei centovent’anni che avrebbe dovuto dormire ne ha dormiti solo trenta.

Beh, una nave che va a centocinquantamila km al secondo e che porta esseri umani ibernati avrà un sistema di emergenza per rimetterlo a dormire, no? No. L’elettrauto è condannato a vivere  la sua vita sull’astronave con tutti che dormono e a morire solo mentre guarda gli altri restare giovani e viaggiare verso i propri sogni. Dopo aver cazzeggiato un po’ (un annetto e mezzo, praticamente un professionista dell’ozio che nell’antica Grecia a confronto erano stakanovisti) decide di dare una svolta alla questione. Io mi sarei suicidata, ma io sono scema e lui no quindi va a svegliare la scrittrice bona e poi quatto quatto si allontana. Lei si sveglia, lo incontra e “oh mio dio siamo svegli solo noi” “bah sì sarà stato un guasto, andiamoci a fare un martini dry”.

Da qui due ore di bicipiti di lui e culo di lei, primo limone, sesso sfrenato, idillio, ogni tanto un robottino si suicida e qualche contatto salta, ma che vuoi che sia. I due non si preoccupano: lei scrive un libro che nessuno leggerà mai e lui aspetta che lei si svegli per farsi comprare i pancake per colazione perché lei c’ha la carta criogold e lui è rimasto con tre dollari e cinquanta.

Grazie ad un espediente GGGGGIUUUENIAAALE (un barista androide chiacchierone) lei scopre che in realtà è stata svegliata da lui perché oh insomma novant’anni di pippe manco un condannato a morte. Mezz’ora di insulti. Intanto si sveglia Morpheus, capo tecnico dell’equipaggio, e si accorge che la Nabucodonosor sta per schioppare. Per dare quel brio che mancava scende dal crioletto col piede sbagliato, quindi non si sa perché ma sta per morire. Fa in tempo a spiegar loro due fondamenti di diagnostica e poi buonanotte ai suonatori, funerale nello spazio e tanti cari saluti a Lawrence Fishburn che è durato meno di una carcassa di mammuth in un covo di T-Rex. Jim scopre il problema: questa nave del cazzo che ha una tecnologia paragonabile a quella degli alieni in Indipendence Day non ha alcuna prevenzione e controllo dei guasti. Hanno scoperto praticamente tutto inclusa l’immortalità e la pietra filosofale ma se si fulmina una lampadina per colpa di un sassolino interstellare è meglio che ti fai il segno della croce. Il portellone che blocca lo sfiato dei propulsori nucleari (?) è bloccato: lo deve aprire a mano. Stacca una porta e se la porta (LOL) come scudo contro un fronte di fiamma a 4000 gradi. Esce, si aggancia, preme il bottone ma il portellone non resta aperto: deve fare scudo con la porta mentre lo tiene aperto a mano. La fiamma di un propulsore nucleare contro una porta. Vince la porta.

Il danno è riparato ma ahimè il propulsore è pur sempre un propulsore e lo sbalza lontano dall’astronave. Gli si buca pure la tuta, ovviamente lui la tappa col dito e né i 3 gradi Kelvin (-270°C, quindi dovrebbe non congelare ma SURGELARE all’istante come i pisellini primavera) né la differenza di pressione possono niente contro il suo dito. Beh, se una porta può resistere a un propulsore nucleare…

Lei che nel frattempo è in contatto radio si accorge che qualcosa non va, esce e ovviamente con l’esperienza che può avere una alla sua prima nuotata nella radiazione di fondo, lo recupera. Beh, se una porta…

Tutto a posto, si amano di nuovo, ehi ma la capsula medica che abbiamo usato ha l’opzione “ricongela”, bene, usiamola. Ma ce n’è una sola! Una sola? Per cinquemila passeggeri? Quindi se ti prende un infarto mentre qualcuno si sta facendo sistemare un femore rotto sei destinato a fare la fine di Morpheus? Esatto. Sempre gli stessi progettisti megaintelligenti che viaggiano alla velocità della luce ma eccetera eccetera.

Beh, ci stringiamo, no? Vorrai mica farmi fare la fine di Leo Di Caprio in Titanic? Certo che no, non va nessuno dei due. Restiamo qui a invecchiare e morire e trasformare un’astronave progettata da un gruppo di umpa lumpa con seri danni cerebrali in un orto botanico. Senza terriccio? Senza humus? Se ci caghiamo abbastanza anche l’acciaio può fiorire. Passano i novant’anni, l’equipaggio si sveglia, Andy Garcia appare per tre secondi, guarda il disastro in cui hanno trasformato la Nabucodonosor e prima che abbia il tempo di bestemmiare BAM titoli di coda.

Un capolavoro di inettitudine. Sto ancora cercando di decidere se siano peggio i buchi di sceneggiatura, le forzature o le follie scientifiche. In confronto i boati nello spazio di Gravity sono piccoli errori alla centotrentesima cifra decimale.

Che dire, amici. Cosa aggiungere.

Unico motivo valido per vederlo se per caso mentre fate zapping lo stanno passando in seconda serata su Rete4:

Scegliere in base ai gusti. Buonanotte, io vado a fare l’ottavo rewatch di Predestination.

“Macbeth”, ovvero come distruggere un capolavoro

Premessa: cercherò di recensire questo film ignorando il fatto che ieri sera, per guardarlo, mi sono persa Napoli – Inter. In teoria ciò alzerebbe molto il livello delle mie pretese, ma per non peggiorare una già compromessa situazione, non ne terrò conto.

La storia la conosciamo già tutti (voglio dire, non è una puntata del Trono di Spade, è stato scritto 400 anni fa, se ne può parlare), ma se disgraziatamente ci fosse ancora qualcuno che non la conosce, dalla visione del film riuscirebbe a ricavare al massimo quanto segue.

 

Fotogramma numero uno: il cadavere di un bambino. Subito dopo: Scozia, un anno imprecisato tra l’800 e il 1200. Re Duncan, sovrano di Scozia, sta combattendo una guerra contro… qualcuno. Macbeth, barone di Glamis, riesce  a vincere una battaglia semplicemente tagliando la capoccia del condottiero avversario, il quale forse è in piena crisi depressiva perché quando Macbeth lo decapita oppone meno resistenza di un tonno in scatola ad un grissino. Intanto, altrove, un conte ha tradito re Duncan. Questi, stupito dall’incredibile abilità mostrata da Macbeth nel passare a fil di spada un tetraplegico indifeso, usa il traditore come bersaglio per il tiro con l’arco e gli revoca il titolo, dandolo al nostro eroico spadaccino Fassbender. Intanto, dopo aver messo in una fossa comune un ragazzino a lui molto caro (il figlio? Non ci è dato saperlo) caduto in battaglia, Fassie incontra tre (Fantasmi? Streghe? Parche? Maghe?) cessi, chiamate ironicamente Fatali. Nel senso che le loro facce storte sono così brutte che potrebbero essere l’ultima cosa che guardi. “Ah, tu sei il barone di Glamis?” “Sì” “Il barone di Cawdor?” “Veramente…” “Il RE!” “Eh?” “Ehi fedele scudiero Banquo, anche tuo figlio sarà re” “Ma che cazz…” e se ne vanno. Siccome all’epoca i manicomi non c’erano ancora, Macbeth scambia le tre sciroccate per l’oroscopo di Branko. Tornando a casa, contento come un fringuello, ha la brillante idea di dire alla moglie (una che parla con Satana come se fosse il salumiere della coop, un etto di crudeltà grazie ho fatto un etto e mezzo che faccio lascio?) della predizione. “Beh quindi ora uccidiamo re Duncan” “Ma tesoro, mi vuole così bene,ci ha mandato anche il cesto col salame di cervo a natale, e poi mi ha appena promosso, pare brutto” “Ho detto, uccidiamo re Duncan” “Ma che vai de prescia?” “Uccidiamo. Re. Duncan.” “Je s’è incantato er disco” “Uccidiamo…” “HO CAPITO, uccidiamo re Duncan, va bene. Oggi le scoppiate tutte io…”.

Macbeth, il suo enorme bufolo sul collo e la signora Macbeth danno quindi una festa alla quale invitano il re e la sua famiglia, cioè tre ragazzi vestiti come san Francesco che dichiarano di essere i suoi figli. Duncan, opportuno come una mortadella in sinagoga, sceglie proprio la festa per designare il figlio maggiore come successore al trono, al che a Macbeth parte la brocca, quindi imbottisce di xanax le guardie del re e va a trovarlo mentre dorme. Una pugnalata. Duncan sta meglio di me. Due, tre, quattro, cinque pugnalate. Duncan si dibatte ancora come una spigola appena pescata. Sei, sette, otto, nove, dieci, undici, Duncan sta ballando la macarena, dodici, tredici, Duncan si accende una sigaretta, quattordici, quindici, perdiamo il conto, Duncan finalmente accenna qualche rantolo, sedici, diciassette, finalmente crepa. FiglioMaggioreDiDuncanFuturoReDiScoziaMaForseNo compare sulla porta. Piagne. “Se non ti levi dalle croste ti faccio diventare un colabrodo come tuo padre”, e quello esegue. Macbeth si va a fare il bagno con la moglie, e questa è una scena aggiunta che nella stesura originale non compare ma serviva a farci vedere Fassbender nudo, poi mette i pugnali in mano alle guardie e va a dormire beato.

fassie

La mattina dopo il signor MacDuff, che non si capisce se sia il prete, il calzolaio o il migliore amico del re, va a svegliare il sovrano. “Maestà, ci sono le gocciole”, ma quello non risponde, e se non risponde per le gocciole il problema deve essere serio, infatti ommioddio re Duncan è stato frollato, chi se lo aspettava. Macbeth allora sgozza le guardie del re. “Perché l’hai fatto?” “Boh, mi andava” “Quindi tu ora sei il re” “Esatto” “E il figlio di Duncan è scappato” “Già” “Quindi sicuramente l’assassino è lui che non ci ha guadagnato niente! Evviva re Macbeth!”, scavalcando di fatto gli altri due figli dell’ormai tartare di re di Scozia.

A questo punto Macbeth si ricorda della profezia: anche il figlio di Banquo sarà re. Infatti siccome Macbeth è un uomo tanto fortunato, gli sono morti tutti i figli. Fare un altro figlio e garantire la discendenza? No, meglio uccidere Banquo ed ogni cosa che porti frammenti del suo DNA. Imboscata, Banquo fa la fine del toporagno mentre grida al figlio di scappare, il figlio invece, nonostante resti un’ora e tre quarti imbambolato come uno stoccafisso, riesce a salvarsi. Quando Macbeth lo scopre, perde l’ultimo fioco barlume di sanità mentale rimastogli e si fa prendere la mano. Brucia vivi la moglie e i figli di MacDuff che intanto era scappato in Inghilterra (gli era venuto il dubbio di non averci visto tanto chiaro sull’assassinio del re) e poi uccide e massacra e sventra e sgozza un po’ tutto quello che gli capita davanti.

Viene assalito da un dubbio e torna dalle Fatali, che intanto sono diventate quattro, forse una è un’amica che è rimasta a pranzo, “Non è che tante volte me sto a fa’ terra bruciata intorno? Sai, non vorrei che qualcuno se risente” “Tranquillo, nessuno nato da una donna potrà fermarti” “Ah allora alla grande”. Intanto la signora Macbeth si ammazza, che uccidere un re va bene ma insomma se uccidi tutti mi deprimo persino io che gioco a briscola con Belzebù, e MacDuff, venuto a conoscenza dell’affumicatura della propria famiglia, si fa prestare diecimila (!) uomini dal re di Inghilterra per rendere il favore a Macbeth. “Ehi Macbeth” “Che c’è?” “Scendi che ti devo dire una cosa” e lo pugnala. “Ma nessun uomo nato da una donna…” “Io sono il figlio di Platinette, ora crepa”. E lui, che è molto obbediente proprio come tutti gli altri personaggi del film, dopo un monologo di venti minuti con una lama da trenta infilata nell’intestino tenue, esegue. Ora FiglioMaggioreDiDuncanFuturoReDiScoziaMaForseNo può tornare a prendersi la corona che gli spetta di diritto, ma oh oh sorpresone colpo di scena, riecco il figlio di Banquo apparire sul campo di battaglia (?). E’ vivo, nei ventotto minuti di regno di Macbeth è sopravvissuto mangiando radici nella foresta. Estrae la spada dal terreno rievocando leggermente un classico Disney ma magari sono io che mi sbaglio, e si avvia nella nebbia verso… boh. Fine.

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Adesso, siccome non mi voglio dilungare,farò una rapida lista di cose per cui il film è sbagliato. Come se l’aver fatto a coriandoli la trama originale non fosse già abbastanza.

  • il linguaggio: va bene, è Shakespeare. Ma siamo nel 2015, e questo è un film, non un libro. Non posso rileggere quello che non ho capito. E se mentre parli di profezie a un certo punto stai parlando di vino e di botti e di vendemmia senza un minimo di nesso logico per nessuno che sia nato dopo il 1690, al terzo dialogo ho voglia di farmi una pera di viakal. E poi, MECBEFFF? Ma chi sei, Sir Ian McKellen? Stai in italia, oooh, qua si dice gap, scaip, naik, scannerizzare, zummare, MACBET. E se non ti sta bene puoi andare a mangiare porridge sotto la pioggia, caro il mio traduttore di questa ceppa di minchia.
  • gli attori: avete usato un’impostazione del tutto teatrale. Magari prendere qualcuno che il teatro non l’abbia visto solo da fuori? Non è che deve per forza fare tutto Fassbender, eh, c’è tanta gente giovane che vuole lavorare. Ha una faccia sola per tutto il film. “Fassbender è nato per questo ruolo”, ne uscirebbe meglio se si dicesse che è nato per interpretare Magneto.
  • la profondità: Macbeth è un dramma, una tragedia interiore, una storia di struggimento e senso di colpa, di tormento e di pazzia. Qui ci sono solo un sacco di facce sporche e truci sempre ingrugnate e una Lady Macbeth rubata al braccio di psichiatria che si eccita sessualmente a sentir parlare di omicidi. Piatto come l’elettroencefalogramma di Salvini.
  • le scelte registiche: per tutto il film ho pensato che la regia fosse di Zack Snyder. Invece no, è un certo Justin Kurzel che voleva solo scimmiottare “300”. Tutto quel rallenty, antiestetico come il rossetto sui denti, e quell’inutile sequenza incrociata di salti temporali che già non si capiva niente prima figuriamoci dopo, gli schizzi di sangue alla Tarantino, scopiazzature a destra e a manca, neanche una scena madre, ma chi lo ha fatto diplomare questo Kurzel CHI.
  • la fotografia: come si fa a sbagliare quando stai riprendendo le brughiere scozzesi? Come? Consiglio ai discromatoptici di non vederlo, perché già era praticamente in bianco e nero per me, non voglio immaginare per loro.

Ora farò una lista delle cose che invece mi sono piaciute:

Stamattina ho avuto la brillante idea di andare a leggere la critica. “Meraviglioso, incredibile, magnetico, stupendo, pazzesco”. Io vi giuro, se avessi avuto le palle me le sarei tagliate. Una cosa così noiosa, mai. E voglio dire, ci vuole del talento per rendere noioso Shakespeare, cioè devi essere bravo. Non c’era nemmeno l’idea di fondo.

“Oh facciamo Macbeth?” “Va bene, ma un remake tipo quello che Tarantino ha fatto di Django?” “Mmmh” “Tipo Romeo+Juliet?” “Non proprio” “E come allora?” “Più tipo che prendiamo dei premi Oscar totalmente inadatti, gli facciamo dire un po’ di battute a caso dal copione originale, mischiamo la linea temporale e non facciamo capire un cazzo a nessuno” “La critica impazzirà”

Poi mi tocca sentir dire che “The Revenant” è brutto. “Eh ma la storia… la storia… ” “Che ha la storia?” “E’ un po’… non è… prematurata” “Sai, Di Caprio è bravo, però non agita tanto bene la scamandra in cofandina” “Certo, però Iñarritu è un po’ egomaniaco autoreferenziale autocelebrativo automobile autodromo con scappellamento a destra”. Eh invece questo qui, questo è un capolavoro.

Quanto mi piacerebbe legarvi ad una sedia e costringervi a guardar bruciare le pellicole. Questa, quella di Amour e quelle di tutti i registi cecoslovacchi che vi piacciono tanto. Questo film è una cagata pazzesca.

92 minuti

Wake me up when *whatever* ends.

Non svegliatemi quando finisce settembre, no.

Svegliatemi quando la finite di andare in giro con le pinze nei capelli, con le gonne senza calze se ci sono quindici maledettissimi gradi, con le magliette a maniche corte e collo alto, con le nike arancioni sotto il completo. Non capisco più se la moda faccia presa su quelli nati già encefalitici o se renda tali anche quelli normali. Cristo santo, ho comprato un paio di stivaletti a punta e mi sembra di essere tornata nella Cina di due secoli fa. Pronto, produttori di scarpe? Sì, non so lì da voi, ma qui da noi i piedi hanno ancora le dita.

Svegliatemi quando vi saranno passate le fisse per i cani, per i vaccini, per la dieta vegana, per la soia, per Salvini, per gli immigrati, per i complotti, per le scie chimiche, i rettiliani, Putin, Obama, la massoneria, il Nwo, quando avrete finito con le amache di Serra e le palate di anacronismi di Feltri, “La tv, i cellulari… ai tempi miei… prima… quando si coltivava la terra…”, ai tempi tuoi i rompicoglioni rimbambiti come te, invece di capire la direzione del mondo, si preoccupavano di rimpiangere le carrozze con i cavalli e i ferri da stiro a carbone.

Svegliatemi quando vi verrà voglia di riprendere contatti col mondo e non messaggiare su whatsapp mentre vi sto parlando, quando vi infilerete in tasca quei cazzo di cellulari e presterete attenzione a dove mettete i piedi, invece dei like.

Svegliatemi quando avrete archiviato i sogni di gloria e vi sarete rassegnati alle vite normali che avrete, in cui non farete i giornalisti o gli amministratori delegati o i cantanti o gli astronauti, ma più probabilmente gli impiegati. E vi annoierete da morire perché non sapete dare valore a un cazzo di niente, men che meno a quello sputo di tempo che vi è concesso su questa terra. Nessuno scoprirà le vostre doti attoriali sull’autobus, nessuno vi chiederà di pubblicare un libro, stupito dal fulgore della vostra sfavillante lista della spesa. Non avrete uno yacht, non avrete una villa con spiaggia privata, non avrete i domestici e non avrete la Ferrari, non berrete mai bottiglie di vino francese da duecento euro e non sgombereranno mai un ristorante a Manhattan per voi. Rassegnatevi alla Fiat Punto e agli ombrelloni accalcati su una fogna di spiaggia con l’acqua oleosa, al vino dell’esselunga e alla trattoria col menu a dieci euro. Avreste potuto avere qualcosa di straordinario nelle vostre vite: il vostro cervello. Ma avete deciso di coltivare piuttosto l’orribile varietà delle vostre mancanze.

Svegliatemi quando non mi toccherà più sentire vagonate di troiate sui vostri raffinatissimi gusti letterari o cinematografici. Hipster di merda. La nicchia in cui vi siete nascosti faccia al muro non è altro che la mesta rivincita piccolo borghese di chi vorrebbe vedere i cinepanettoni e sopravvivere al senso di colpa di avere anche riso, e allora si lancia negli improbabili voli pindarici di altrettanto improbabili registi lituani che millanta di aver interiorizzato, ma che in realtà non ha neanche capito, semplicemente perché non c’è davvero un cazzo da capire. Vuoti come le fosse del senno di prima.

Svegliatemi quando avrete voglia di ammettere che non siete Dalì e che la fotografia delle vostre tette allo specchio non è altro che l’espressione dell’unica cosa che, al momento, vi rende distinguibili da un cartonato: la vostra mai sopita voglia di trombare.

Svegliatemi quando accetterete che non siete l’unica persona buona della terra. Quando ammetterete che neanche a voi frega un cazzo degli altri, come agli altri non frega un cazzo di voi. Quando capirete che c’è una sola cosa che fa veramente andare in bestia le persone e che le spinge ad uscire dalla vostra vita: che gli avete rotto i coglioni. Non che siete troppo buoni, non che sono invidiosi, non che vorrebbero avere la vostra vita, non che stranno tramando qualcosa alle vostre spalle, non che dite “le cose in faccia”, ma che avete rotto i coglioni. Puro, semplice, diretto, immediato. Siete insopportabili, pesanti, stracciapalle, lamentosi, noiosi, monotoni.

Le cose in faccia. Santo dio. E’ la scusa che usavo quando avevo quindici anni e stavo sul cazzo a tutti. Sono passati undici anni e sto ancora sul cazzo a tutti, ma almeno ora so che affermare la mia opinione come se fosse la verità assoluta è il mio peggior difetto, non il mio miglior pregio.

Svegliatemi quando finite di ripetere su facebook le stesse quattro battute di merda che riciclate a mesi alterni, quando la finite con i link da ritardati, con i “se ami la Madonna condividi”. No, io non la amo la Madonna, nemmeno quella di Papa Don’t Preach, figurati la tua. Una che ha figliato da vergine ed è pallida come un’irlandese pur essendo nata in Medio Oriente, quindi prima che bestemmi tutti i tuoi preziosissimi Santi, relega la tua fede dove merita di essere relegata, ossia nell’antro più buio e terrorizzato del tuo sifilitico cervello. Se pensi che Gesù ti abbia aiutato almeno una volta nella tua miserabile vita di merda, fai così, non condividere, guardati in faccia nello specchio del bagno e  sputaci, perché quello che stai guardando è un adulto che vede un libro scritto a tavolino mille e ottocento anni fa come un valido motivo per credere in Dio e non in Babbo Natale. Ah, ti sei offeso? Mi dispiace tanto, so che la logica è dolorosa. Comunque puoi continuare a nasconderti dietro il dito del “non esiste solo la logica” o dietro quello del “e se Dio non esiste come spieghi l’Universo?”, e anche ad offenderti se qualcuno ride di te come rideresti tu parlando con qualcuno che crede nei vampiri.

Oppure, svegliatemi il 16 dicembre, che esce Star Wars. E almeno questa è una certezza, non una vana speranza.

Tanti sono i miei cuori, quante le città che ho abitato.

Vivo a Roma da sei anni. E’ il posto più bello del mondo, ed è casa mia. Mi somiglia più di qualunque altra città, con la sua indolenza e le sue luci giallastre, riflesse sui residui di una nazione che non esiste più da decenni. Ne amo ogni particolare, ogni anima se, come ha detto Gigi Proietti, fossero più di una. Amo il modo in cui mi ha accolta, come una madre, con lo stesso calore e gli stessi battibecchi, il conflitto con qualcuno da cui vorresti più carezze, meno difficoltà, meno attese, anche se è già focolare domestico e anima e appoggio. Roma è una città perfetta per chi ha dolore e non sa in che punto preciso del petto, perché quando le luci del lungotevere illuminano il fiume e Castel Sant’angelo, quando mangi una grattachecca della Sora Mirella con i piedi penzoloni dai muretti dell’isola Tiberina, quando la luce rossastra si infila tra gli archi del Parco degli Acquedotti, non c’è nodo capace di non sciogliersi.

Ma ogni anno, quando viene Luglio, mi manca la mia Pescara. Mi manca la mia infanzia, e le persone che l’hanno resa un luogo ameno della mia memoria. Mi manca il profumo che ha l’aria quando ti svegli presto, il rosso del tetto che vedo dalla mia finestra contro il verde delle colline e il blu delle montagne, l’aria fresca in cui trovi ristoro sulle colline. Mi mancano le vie dissestate del centro, la luce del pomeriggio dietro la Feltrinelli, mangiare la pizzetta di Trieste alle due del mattino seduti coi piedi nella sabbia. Mi manca pedalare verso la città col sole in faccia la mattina quando vado e la sera quando torno. L’odore del sale e del sole sulla pelle bruciata, l’acqua che diventa più profonda e fredda tra due file di scogli, tornare all’ombrellone e addentare una susina. Mi manca più di ogni altra cosa ciò che manca a chiunque sia nato con i piedi nell’Adriatico: il sole che spunta dal mare, l’acqua che diventa blu, poi viola, poi rosa, e si stria di tutti i colori e gli occhi ti diventano iridescenti mentre ti accarezzi la pelle d’oca sulle cosce.

Quand’ero bambina mia madre e mio padre lavoravano entrambi da mattina a sera, quindi io sono una di quelle adulte tipiche della contemporaneità che si trascina dietro un’ansia abbandonica tutta intrisa del ricordo delle mani sulle sbarre del cancello ed il torace scosso dai singhiozzi mentre mamma se ne va, ed anche se poi torna, tutte le mattine se ne va. Ho passato tutte le prime quattordici estati della mia infanzia con i genitori di mio padre. Posso dire, senza tentennamento alcuno, che nonna Lidia mi ha insegnato l’amore, che come ogni amore dovrebbe essere prescindeva completamente da ogni mancanza ed ogni difetto mio e suo, anche se di suoi ne ricordo pochi. La forza di cento uomini e la dolcezza di cento donne.

Nella sua casa si entrava da un cancello che per me sarà sempre marrone anche se ora è verde, che dava su un piccolo patio. Sulla sinistra le finestre del negozio di mia zia, poi la porta d’ingresso con una tendina, lunghi fili di nylon con spirali di vimini beige e marroni attorcigliate intorno, ne ricordo ancora la consistenza sulle dita. Più avanti il giardino. Un ombrellone quadrato, più piccolo di come lo ricordo, una bouganvillea fucsia come un tetto di fiori sopra l’ombrellone, un abete altissimo il cui tronco lacrimava resina, un albero di limoni, sempre pieno di limoni, un albero di mandarini, che non ha mai dato un mandarino, una pianta di campane degli angeli, enormi e bianche, i gerani, le viole del pensiero, le rose altissime, bianche, rosse, gialle, rosa, la parete col rosmarino e l’albero di fichi bianchi, una pianta di cui non ricordo il nome, i cui fiori erano semi neri prima di sbocciare, una recinzione verde intorno al paradiso dei miei nonni.

Ogni mattina nonno Leandro era già uscito quando arrivavo, i pochi capelli candidi impomatati, la camicia, il gilet e la cravatta, le scarpe sempre lucide, anni prima che fosse scosso da incontrollabili tremori e dolorosi ricordi di guerra, intrecciati alla realtà. La coppola sulla testa e la fiat tipo grigia con due righe disegnate sulle fiancate, una gialla e una arancione. Dal barbiere, poi al porto. Quando tornava, un paio d’ore dopo, sapevo che i rumori del motore e del cancello sarebbero stati seguiti dal suo saluto e dall’odore della mortadella coi pistacchi, tagliata sottilissima, o della pizza col pomodoro, nella carta bianca tutta unta. Metà io, metà nonna. Nonno non ha mai pesato più di 42 chili, lo stesso peso di nonna quand’è morta, 60 chili di meno di quand’era giovane. Intanto, zia pucciava gli oro saiwa nella tazzina del caffè, metà per volta spezzati per lungo, prima di sparire nella porticina bianca che dalla cucina di nonna sbucava nel suo negozio. Reggiseni, maglie, mutande e pigiami. Poi giocavo nel giardino, nel garage, coi fiori, ed erano quelle le rare volte che nonna mi minacciava col battipanni, ma non funzionava, sapevo già che mai mi avrebbe sfiorata. Le tortine di terra, le bambole che facevano il bagno nel lavandino, qualche volta da sola, qualche volta no. Poi i primi libri sulle sdraio all’ombra, ogni tanto le corse per scappare dalle vespe e dai calabroni, che comunque erano più attratti da tutti quei fiori che da una bambina pallida, paffuta e coi capelli crespi. Ricordo più di ogni altra cosa il passo di nonna che faceva avanti e indietro dal garage, e il dolore alle ginocchia quando mi arrampicavo per entrare dalla finestra del bagno e coglierla di sorpresa mentre cucinava, a tutte le ore. E ricordo il colore delle polpette. Le polpette più buone del mondo, dorate e mai marroni, che nessuno ha mai saputo come riprodurre. “Quand’è vecchia, la aiuti ancora la nonna a fare le pulizie?” mentre dopo pranzo passavo la spugnetta gialla sul fornello che mi arrivava a stento al mento. “Certo nonna”.

Poi la quiete sui divani grigi di velluto, caldi come l’inferno, mentre nonno leggeva il giornale e nonna sotto la finestra ci ricamava i corredi, con le dita già gonfie per l’artrite. “Tieni, prendi una pezzetta, un ditale, un ago e il filo verde” e facevo il punto a giorno. “Dammi i polsi, dobbiamo srotolare le matassine” e io mettevo le mani nelle matassine di filo bianco per l’imbastitura che lei srotolava e riarrotolava intorno ai rocchetti. Lei insegnava alle ragazze del quartiere a ricamare, così come suo marito, mio nonno, le aveva insegnato a fare lavori di sartoria. Lui e lei entrambi col filo in mano, la macchina da cucire nera col pedale e la ruota, i loro gessetti, azzurri e quadrati, i metri da sarta e la finestra del salone sul soffitto, piccola, quadrata, che si apriva con un bastone. Il tubo di concentrato di pomodoro rosso con il tappo verde, i parrozzini, il bagno con le pareti rosa, le macchie di sugo che mi toglieva dai vestiti con la trielina, il negozio di zia Luisa che mi faceva sedere sul bancone bianco con i contorni gialli e mi cantava della casetta in canadà o della cinesina che danzava dentro un vaso di porcellana. Le vetrine con i fiori di pesco di plastica e i manichini alti e bianchi.

“Vai a prendere la pasta all’uovo, dagli questi soldi e se non bastano digli che sei la nipote di Lidia” e io piccolissima trotterellavo col vassoio in mano mentre lei mi guardava da casa sua e io mi sentivo adulta e responsabile. Nessuno contraddiceva Lidia, il terrore del quartiere, che quando gestiva il negozio andava a riscuotere a casa dei debitori, senza avere mai paura di nessuno di loro, che ancora a 70 anni andava a fare la spesa al mercato con la graziella rossa e tornava caricando le buste sui manubri. Il donnone che aveva placcato e messo ko la zingara che di notte era entrata nella sua casa, e l’aveva tenuta stretta con un braccio solo mentre chiamava la polizia, e che da giovane portava il marito seduto sulla canna della bici. “Vai a prendere il gelato al nonno”. Bacio pistacchio cioccolato e panna. “Vai a prendermi un pacchetto di sigarette”. Multifilter 100’s rosse per lei, blu per mia zia.

Con gli anni li ho visti avvizzire. La Tipo è sparita, i corredi sono stati completati, il negozio è stato chiuso ed io sono diventata grande. La domenica a pranzo, poi un grosso litigio, poi più niente. Solo le telefonate, la sera a cena, “Pronto?” “Ciao nonni’, sono la nonna, volevo sentire la voce”. Anche io tanto spesso ho avuto bisogno di sentire la voce, ma la ricordo, come fosse ora, la ricordo che ride e che urla, la ricordo che dice “la sera, quando chiudo la porta, le cose veramente importanti stanno di qua, quello che sta di là non mi importa”, o “solo alla morte non c’è rimedio”, “di due paradisi non si può godere”.

Ora nella casa vivono due odiosi vecchi rimbambiti che hanno buttato giù la porta del bagno rosa, lasciato morire gli alberi, cambiato il colore del cancello, della rete. Potrei dire cose sul tempo che passa, su quello che è rimasto, sulla loro morte e sulla loro mancanza. La verità è che volevo fare un viaggio in quegli odori e in quelle atmosfere, perché quella quiete, quell’ordinaria bellezza, mi placa i dolori.

Roma è una mamma, ma Pescara è la mia tenera nonna, e i suoi capelli grigi e la sua mano che tiene la mia mentre mi porta al di là del cancello verde a vedere le bici che corrono quando passa il Giro d’Italia.

“Non cerchiamo attenzioni o compassione: cerchiamo un po’ di sollievo” – La mia storia

“Di queste cose non si parla”

“Non ti lamentare sempre”

“Alle persone devi far vedere la parte leggera di te”

“Quando hai intenzione di accettare il tuo problema?”

Sapete, non mi importa davvero un cazzo di niente di cosa pensiate voi. Non mi importa se crediate o meno che i problemi li abbiamo tutti. Non mi importa se vi hanno insegnato che non si parla e che non ci si lamenta. Io mi lamento, perché mi dà sollievo. Mi lamento, perché mi sembra un modo più delicato di informare le persone che ho intorno, rispetto all’alternativa, che sarebbe prenderli per le spalle, sbatacchiarli contro il muro e dir loro “MI HAI ROTTO I COGLIONI, SMETTI DI DIRE CHE HAI CAPITO, NON HAI CAPITO NIENTE”. Mi lamento perché sono stanca di giustificarmi quando dico che non ce la faccio, che non ci riesco, che non me la sento. “La cosa peggiore che puoi fare ad una persona con una malattia invisibile è farle sentire che deve provare quanto sta male” ed io mi lamento perché sento di dover provare qualcosa a qualcuno, e non voglio farlo più.

Io parlo. Parlo perché non sono l’unica a combattere una battaglia, e so che la mia rabbia tanti non ce l’hanno. Non voglio che chi lotta si senta sbagliato quando non ce la fa, come è successo a me. Voglio raccontare di me, sperando che chi mi legge possa trovare un po’ di forza nella mia forza, un po’ di speranza nella mia speranza, e nel mio orgoglio un po’ di orgoglio per mandare a cagare chi gli fa pesare il suo già pesante fardello.

Ho la sindrome di Ehlers Danlos, che a me piace chiamare “sindrome del collagene cinese”. Non me ne vogliano i cinesi, ma le loro imitazioni fanno cagare, proprio come il mio collagene. Il collagene è quella roba che tiene insieme tutti i pezzi del nostro corpo, una specie di colla interna che serve a dare struttura e forma ai tessuti e li connette tra di loro. In buona sostanza, è l’uovo di quella torta che è il corpo umano.

Avevo un anno e pochi mesi quando ho avuto la prima lussazione della spalla: mia zia mi stava facendo fare il cavalluccio sul ginocchio quando si è trovata praticamente in mano il mio braccio, con la spalla che ballava allegramente fuori dalla propria sede. Dopo l’infarto simultaneo di tutti i presenti, mollai un urletto, mi misi a muovere il braccino finché la spalla non si rimise al proprio posto da sola. Pianterello, e tutto finito. Mi portarono comunque in ospedale, dove si sentirono dire “forse ve lo siete immaginato. La spalla di vostra figlia non è lesionata”. Quel “forse ve lo siete immaginato” mi ha perseguitata, poi, per anni, di dottore in dottore.

Per tutta l’infanzia e l’adolescenza fu un continuo di lussazioni, febbri inspiegate, lividi continui, sanguinamenti incontrollati, dolori, strappi muscolari, cadute, goffaggine, lividi. Fu lì che fui traumatizzata per sempre dallo sport: io, che ero la bambina più traballante del pianeta, dovevo giocare a pallavolo. Per forza. Facevo gli scatti, e mi strappavo. Facevo le schiacciate, e mi lussavo. Avevo dei piedini bruttissimi, tutti mollicci e instabili, e mi ricordo che ero arrabbiatissima perché tutti i bambini salivano scalzi sullo scivolo e io no. Poi scoprii che potevo salirci coi sandaletti di plastica, e fu la prima opera ingegneristica della mia vita.

Crescendo, costrinsi mia madre a farmi mollare la pallavolo e mi iscrissi in palestra. Non era piacevole, specie quando non tenevo la presa con le gambe intorno ai rulli della panca per gli addominali o non riuscivo a coordinarmi sul tapis roulant e mi schiantavo inevitabilmente per terra, sotto gli occhi di tutti. Non era piacevole non fare nessun progresso, ed anzi, provare sempre più dolore, sempre più spesso, sempre più dappertutto.

La palestra non aiutava, il dolore non migliorava, le emicranie mi levavano il sonno, ed i miei genitori allora iniziarono a pensare che forse non bastava aspettare che passasse con la crescita, come suggeriva il mio geniale medico di base. Quindi mi portarono da un ortopedico, due, dieci, venti, finché non approdammo dall’allora medico della nazionale di calcio di cui ometterò il nome perché se lo prendo lo butto sotto con la Panda e non voglio che nessuno risalga a me. Il luminare rise della preoccupazione di mia madre, e le rispose che forse si trattava di “un po’ di lassità generalizzata”. “Ma la bambina si lamenta, dice che ha dolore, si lussa sempre” “Le faccia fare palestra”.

Gli anni passavano, ormai ero al liceo. I dolori erano spesso lancinanti. Facevo spettacoli con la mia pelle super elastica (presente il tipo del Guinness World Record? Lui. Ecco. Io sono come lui) che si allungava dai gomiti, dalle ginocchia, dalle mani. La mia professoressa di educazione fisica era contentissima di avere un’allieva con 24 cm di allungamento oltre le dita dei piedi a ginocchia tese, e che faceva la spaccata e si metteva i piedi dietro la testa senza riscaldamento. Le dita delle mani si piegavano all’indietro tanto che potevo mettere il guanto destro alla mano sinistra e far spaventare mia nonna, ma incredibilmente, non riuscivo a spaventare i medici. Iniziò a manifestarsi la sindrome delle dita blu: le mie dita, improvvisamente, si gonfiavano come salsicce, diventano blu e facevano un male, ma un male, che in confronto levarsi un dente a freddo è una stronzata, e poi restavano blu per giorni finché l’ematoma non si riassorbiva completamente. I dolori peggioravano: le lussazioni colpivano anche le anche (bel gioco di parole eh?) ed un giorno mi accorsi che, a denti serrati, riuscivo a infilare il mignolino tra gli incisivi superiori e quelli inferiori. I miei condili si erano completamente consumati, e dopo due blocchi temporo-mandibolari, uno a bocca chiusa ed uno a bocca aperta, mi decisi a mettere l’apparecchio. I condili sono ancora consumati, ma almeno non mi passa più una melanzana in mezzo ai denti.

In tutto questo, i medici continuavano a dire che andava tutto bene. Che ero sana come un pesce. Ortopedici, dermatologi, fisiatri. Tutto bene. Ma io sto male, dottore, ho dolore, ho dolore ai piedi, sempre, e alle gambe, alla schiena, alla testa, sempre. “Sarà lo stress, studi troppo”. Forse erano invidiosi perché io ero un genio e le loro figlie delle cagne, che vi devo dire.

Un giorno, per caso, come Andrea e Giuliano, incontrai l’uomo che mi ha, a conti fatti, salvato la vita.

Andai dal dottore della scuola, una mattina, perché un dito era esploso e mi serviva del ghiaccio secco. Mi guardò le mani e mi disse: “Aspetta”. Prese un librone, lo sfogliò con l’aria di Archimede che urla “Eureka!” e poi trionfante lo girò verso di me. “Ti hanno mai parlato di questa malattia?”

Sindrome di Ehlers Danlos. Un nome simpatico. Immagino le abbiano dato la laurea solo per pronunciarlo, eh, dottore?

E insomma il dottor Saman, medico iraniano che dalle mie parti non si incula nessuno (e che fra le altre cose, un giorno, si accorse che avevo la rosolia appena aprii la porta del suo studio per chiedergli un oki, che non mi sentivo mica tanto bene), senza che nemmeno gli chiedessi nulla, mi fece quella che oggi è a tutti gli effetti la mia prima diagnosi.

Chiamai allora il centro specialistico di Pavia.

-Che vuole?

-Beh, sapere che tipo ho… (nda: questa malattia ha 6 varianti: tre più comuni, ipermobile, classica e vascolare, e tre più rare)

-Glielo dico io. Che sintomi ha?

*segue breve descrizione*

-Ha il tipo classico.

-E quindi?

-Quindi vada all’IDI. *clic*

Andai all’IDI. “Ehlers Danlos? Ma no. Ma si figuri se ha una patologia così rara. Sarà un po’ di lassità”. “Quindi?” “Niente, vada in palestra”. “E i dolori?” “Saranno psicosomatici”.

Da lì, andai da un genetista. “Ma non è di mia competenza” “Ma è una mutazione genetica” “Sì ma tanto non si può fare niente” ” E quindi che devo fare?” “Vada in palestra”.

Andai in palestra, andai all’università, tutto peggiorò: i dolori, i sanguinamenti, le dita blu, i versamenti venosi, le lussazioni, i dolori li ho già detti ma li ridico perché ormai non riuscivo più a comprare le scarpe normali. Iniziai a perdere la memoria e la capacità di concentrazione, ebbi un po’ di problemi personali (un fidanzato stronzo ed una coinquilina che mi tagliava i vestiti) e crollai. Andai in depressione e iniziai ad avere sfoghi, macchie, ulcerazioni della pelle, qualunque cosa vi venga in mente mi venne. Feci qualunque analisi. Continuava a non esserci niente e continuavo a non sapere cosa fare, cosa cercare. Iniziai a credere di essere pazza. Io, che ero un genio, che lo ero sempre stata, una con la memoria fotografica che non aveva bisogno di studiare la matematica mai, nemmeno prima dei compiti in classe, non mi ricordavo più un cazzo. “Sarà la depressione”. La depressione la curai, ma per i dolori nulla da fare. “Lei sta bene”.

A novembre dello scorso anno, ormai non camminavo più. I miei talloni erano pieni di palle di natura sconosciuta, i miei gomiti si spaccavano senza motivo ed usciva una robaccia bianca che sembrava pus, i miei occhi si riempivano di sangue, i capelli mi cadevano, mi svegliai un giorno col sangue che mi usciva dalle gengive, dal naso, dagli occhi. Chiamai mamma e le dissi “sto morendo” ed a questo punto, amici miei, non c’è più niente da ridere, né da immaginare. Corsa forsennata in ospedale, tac al cervello, ed indovinate? Non c’è niente, signorina, lei si allarma troppo, eh.

Ormai fuori controllo e ad un passo dalle stampelle, mia madre (per mia fortuna) decise che avrebbe risolto lei. Che se i medici dicevano che non c’era niente, lei preferiva credere ai propri occhi, ed alla propria figlia, e non si arrese. Notte e giorno davanti al pc, google, enciclopedie mediche e l’unica cosa che veniva fuori era sempre l’Ehlers Danlos. “Dottore se mia figlia avesse questa sindrome da chi dovrei portarla?” “Eh boh sa non saprei…”.

Notte e giorno, notte e giorno, mentre io ormai mi alzavo dal letto due giorni a settimana, scovammo il centro malattie rare del Policlinico di Milano, dove finalmente approdai qualche mese fa. E finalmente, la diagnosi scritta: Ehlers Danlos. Dopo esattamente ventiquattro, VENTIQUATTRO ANNI di lotte.

Nel frattempo avevo vomitato sangue, e scoprirono anche che il collagene della mia cardias aveva deciso di mollare il colpo, e gli acidi mi stavano corrodendo l’esofago. Ulcera, stadio avanzato. Ricapitolando, al giorno d’oggi, la lista dei miei problemi comprende svariate algie, stortura della struttura ossea di mani gambe piedi schiena e collo, ulcera, tumori molluscoidi, dolori muscolo scheletrici, problemi neurologici, disturbo della memoria, disturbo dell’attenzione, sindrome da fatica cronica, problemi gastrointestinali vari, problemi ginecologici.

Mi alzo la mattina, e fa male. Butto giù le gambe dal letto dopo mezz’ora, e fa male. Maledico tutti i santi, e prendo le medicine. Arrivare in bagno mi costa fatica. Farmi la colazione mi costa fatica. Lavarmi mi costa fatica. Farmi i capelli a volte vuol dire lussazione. Uscire vuol dire arrancare fino alla fermata sperando di trovare posto a sedere e una vettura condizionata. Svenimenti molteplici, dolori ai piedi, poi c’è la salita dell’università, quando arrivo sono tutta sudata e ormai praticamente è ora di pranzo. Poi provo a studiare, e non capisco, non mi ricordo, cado nello sconforto. Torno a casa con i piedi gonfi, le ginocchia che cedono, lo zaino che pesa, e penso che sono stanca, e che fa male, e che voglio piangere, e a volte, vaffanculo, lo faccio. Che mi guardino, è l’ultima cosa che mi importa. Cerco di fare quelle quattro faccende di casa di base, a volte non ce la faccio, nemmeno a mangiare, e mi butto sul letto.

E da fuori non si vede niente. “Però sembra che tu stia bene”. Un cazzo. Un cazzo di niente. E’ una lotta. Tutti i giorni, lotto. Lotto come un leone anche quando devo scegliere se farmi la doccia o fare la spesa. Lotto come un leone quando voglio vedere i miei amici e non dire loro l’ennesimo no. Lotto contro me stessa per chiedere un aiuto e vedere quegli sguardi di chi pensa che ti lamenti senza motivo. Lotto contro il dolore, lotto per condurre una vita normale, per laurearmi, ho lottato per lavorare come commessa saltuaria e mi sono dovuta arrendere al fatto che 8 ore in piedi volevano dire accasciarmi fuori dai negozi piangendo per ore prima di trovare la forza di tornare a casa. Ma lotto ancora, lotterò ancora ed oggi, finalmente, dopo ventiquattro anni, ho conosciuto il dottor Marco Castori, che mi ha detto “non preoccuparti, possiamo fare qualcosa. Io so cosa hai. So che fa male. Ti aiuteremo, andrà meglio, possiamo farti stare meglio”.

Ed io ero così felice che ho singhiozzato di gioia, che ho sentito quel nodo che mi porto dentro da tutta la vita finalmente sciogliersi. Non mi importa se funzionerà del tutto, in parte o per niente. Io voglio una speranza, volevo solo quella, ed ora ce l’ho. Ed ho qualcuno accanto che capisce, una famiglia, una madre che non si è arresa, degli amici che sanno e che non pretendono che io faccia ciò che non riesco a fare, un fidanzato che mi aiuta senza che io debba più chiedere, ed il cazzo che me ne frega delle vostre ramanzine sulle mie lamentele e sul mio “ingigantire il dolore”, oggi, è così grande che sono certa che, affacciandovi alla finestra, lo vedrete lampeggiare in lontananza, ovunque siate.

Questa è la storia di come sono arrivata a ritrovare la speranza. Qualsiasi cosa succeda, non perdetela di vista. E non lasciate che il dolore vi definisca, o che vi definiscano la cattiveria e l’incomprensione delle persone. Quello che vi definisce è il coraggio. Trovatelo, sempre.

La pertinenza delle parole

Avrei voluto scrivere questo articolo in condizioni adeguate, che si confacessero alla serietà ed al peso degli argomenti trattati. Ahimè, la vita è frenetica, e io sono seduta al tavolo della cucina in pigiama mentre il minestrone borbotta sul fornello, e tento di comporre qualcosa di sensato tra una mescolata e l’altra.

Mi sono imbattuta stamattina in un’intervista a Luca Serianni, che per chi non lo sapesse è un linguista e filologo italiano, nonché professore di storia della lingua italiana alla Sapienza. Nel suo ambiente è un pilastro, una delle figure più importanti e rispettate, anche se devo ammettere che anch’io, prima di incappare nella porta del suo studio nella facoltà di lettere, non avevo la più pallida idea di chi fosse. A parlare, pertanto, non è esattamente il primo blogger anticonformista ed autoreferenziale con una conoscenza della materia approssimativa, traballante ed acquisita online (tipo me). L’intervista in questione, che trovate qui, si intitola “Se i ragazzi italiani non sanno l’italiano”.

So cosa state pensando, perché l’ho pensato io in primo luogo: ecco l’ennesimo pippone inutile sulle nuove generazioni di braccia rubate all’agricoltura, sulla scuola da riformare (perché evidentemente vi ricade sopra ogni singola frazione di colpa per qualunque problema affligga o abbia afflitto l’umanità dai tempi delle ruote quadrate fino a quelli moderni o persino futuri), sulle famiglie troppo invischiate nella frenesia di questo satanico presente per poter garantire ai propri figli un’educazione anche solo approssimativamente vicina al minimo sindacale, sui social network che hanno demolito e poi polverizzato una lingua ricca e meravigliosa riducendola ad incomprensibili e gutturali abbreviazioni. Fortunatamente, nulla di tutto questo. Si parte da un assunto abbastanza semplice: stando ai dati PISA (Programme for International Student Assessment, l’indagine promossa dall’Ocse), il 20% degli studenti italiani, iniquamente distribuiti tra nord e sud, “non conosce la propria lingua”. E cioè?

Ma cosa significa non sapere l’italiano? Serianni pesca tra i quotidiani degli ultimi giorni. “Alla fine delle scuole superiori un ragazzo dovrebbe essere in grado di capire un articolo di fondo”.

Capire un articolo di fondo, ecco tutto. La giornalista non è convinta. Tenta di sondare le opinioni del mostro sacro che ha davanti con domande acutissime tipo: “Sta dicendo che i giornalisti dovrebbero scrivere in modo più chiaro?” e via discorrendo. Non si capacita: Serianni non dice nemmeno una volta che siamo delle capre perché scriviamo “qual’è” con l’apostrofo o perché non sappiamo coniugare i congiuntivi o distinguere gli accenti gravi da quelli acuti. Stanca degli approcci indiretti e delle tattiche sopraffine, affonda finalmente il colpo con una domanda diretta:

Qual è il problema più grave nell’italiano scritto degli adolescenti? “Il deficit principale non è l’ortografia, su cui la scuola insiste molto. Un problema ricorrente è la violazione della coerenza testuale, che è poi l’incapacità di argomentare gerarchizzando le questioni trattate. Anche nei temi di intonazione intimistica sorprendono le frasi prive di senso compiuto. Mi viene in mente il tema di un’alunna quattordicenne di un liceo pedagogico. “Noi ragazze siamo molto diverse dai maschi… perché noi cerchiamo sempre l’abbraccio, il bacetto che ci fa sentire al sicuro da tutte le cose che ci sembrano brutte. Al contrario i maschi…” e qui mi sarei aspettato: “sono insensibili”, “pensano soprattutto al sesso”. Niente di tutto questo. “Al contrario i maschi cercano di dare il meglio di loro, ma alla fine non ci riescono”. La ricostruzione dello specifico maschile s’è perduta per strada…”.

Niente, Serianni continua a dire che i problemi sono altri. Parla di coerenza testuale, di gerarchizzazione delle questioni, la giornalista non capisce ed io lo so, la vedo strabuzzare gli occhi e vedo il professore emerito scuotere il capo con rassegnazione. Il deficit non è l’ortografia, dunque, ma l’incapacità di organizzare il proprio pensiero secondo un filo logico chiaro e consequenziale. E quindi? E’ così difficile, Professore! Non abbiamo ancora capito.

“Le cose certo non migliorano con i temi su questioni sociali. Questa volta siamo in una quarta ginnasio, alle prese con un tema su “L’uomo e l’ambiente”. Scrive un ragazzo: “Secondo me si dovrebbe fare la macchina ad acqua ed elettricità per guarire l’ambiente, ma è solo che i politici non vogliono, perché finché c’è il petrolio che è l’unica fonte di energia esistente e la più sfruttata”. Lasciamo perdere tutti gli errori sintattici e lessicali. Quel che davvero non va è la storia della macchina ad acqua, con il facile qualunquismo contro la politica. Siamo sicuri che, diventato adulto, il nostro ragazzetto non sarà tra quelli pronti a giurare sul metodo Stamina?”.

Ormai sono piuttosto certa di dove il discorso stia per andare a parare: è evidente che la povertà lessicale e la totale incoerenza testuale rappresentino degli ostacoli non già per il prestigio della lingua italiana e della sua illustre storia, ma per il suo fondamentale e primario scopo: la comunicazione, e tutto ciò che ne deriva, dalle conseguenze più immediate e quelle più sottili (che poi procederemo ad indagare). Ma la nostra Dylan Dog del nazismo grammaticale non si arrende:

Ma in questo caso la lingua è solo parte del problema.

Sento come una voce che sussurra. “Serianni, ammetta che la lingua italiana è tutta grammatica e nozioni e che questi asini, per poter essere salvati, debbono schiumare il sangue da mane a sera sui libri o in alternativa essere presi a cinghiate sui denti, almeno per celebrare i vecchi fasti. Lo dica, che la lingua è solo questo e che quindi, qualsiasi sia l’altra parte del problema, non ha a che fare con essa.”. Ma il nostro eroe è un duro e non si arrende:

“È una parte essenziale. Conoscere la propria lingua – per tornare alla domanda iniziale – significa padronanza del ragionamento e delle risorse espressive più adeguate per illustrarlo. Tenga conto che un bambino italofono si affaccia alla scuola elementare con un dotazione di 2000 parole, che sono quelle che ti permettono di sopravvivere: il 90 per cento dei discorsi prodotti comunemente dagli adulti. Alla fine della scuola dell’obbligo, questo patrimonio dovrebbe essere molto più ricco”.

Cercherò di essere breve, e se non dovessi riuscirci, non me ne voglia Serianni che ha elogiato apertamente il riassunto e le doti che ci vogliono per svolgerne uno decente. E badate bene che non sto cercando la soluzione al problema. L’unica cosa che mi interessa fare è analizzarlo, e spiegare il motivo per cui Serianni, a parer mio, ha così tanta ragione che in confronto Giordano Bruno è Josef Mengele. Venendo al succo della questione, il problema non è che i ragazzi non ricordano nemmeno un terzo delle centomila regole con relative eccezioni che può vantare la nostra difficilissima lingua. E’ che conoscono 200 parole in tutto, inclusi articoli, congiunzioni, preposizioni semplici e articolate e suoni ad alto contenuto espressivo come ad esempio sbadigli e rutti. Per quale motivo ed in che modo ciò sarebbe più grave e più pericoloso di un “se farei”?. Un errore grammaticale, quindi meramente ortografico o comunque derivante dalla non conoscenza di una regola precisa, va a ledere l’integrità di un’architettura: è un’offesa ad un’eminente e centenaria struttura. E’ sicuramente grave, ma, per capirci, è un errore da correggere con la penna rossa. Un errore lessicale, invece, o comunque l’utilizzo di un termine impreciso che non calza perfettamente al concetto che vuole esprimere è, per tutta una serie di motivi, un errore da penna blu.

Conoscere poche parole equivale ad avere padronanza di pochi concetti: “rem tene, verba sequentur” dicevano coloro dai quali abbiamo ereditato la struttura eminente di cui sopra. Apprendere, e quindi in un certo senso possedere, una gran quantità di idee, vuol dire avere nel proprio bagaglio culturale anche coppie di concetti molto simili ma tra i quali si percepiscono delle differenze, sostanziali o meno. Questo genera una necessità: quella di trovare la giusta descrizione per ognuno di essi. La parola, o la locuzione, che si confà perfettamente a ciò che si ha in mente. E come si apprendono nuove idee? Attraverso le parole. Per riempire quel bagaglio concettuale, dunque, bisogna ampliare il lessico. La conoscenza, pertanto, è totalmente dipendente dal linguaggio. Poche parole, concetto approssimativo: gruppi di concetti più o meno simili, ma comunque distinti, collassano in macrocategorie identificabili con un solo termine.

Similmente per l’incapacità di strutturare un discorso in maniera pertinente: non riuscire ad essere chiari vuol dire mancare di chiarezza a livello ideologico. Le conseguenze di ciò sono abbastanza immediate: si perde la capacità di una comunicazione mirata e precisa, sia in entrata che in uscita. Ci si esprime in maniera sommaria, con argomentazioni imprecise e banali, e la mancanza di parole è causa e conseguenza della vanità delle argomentazioni. Allo stesso modo, non si è più in grado di comprendere le argomentazioni altrui: non c’è modo di comprendere gli articoli di giornale, i libri difficili, i film complicati, i concetti profondi ed importanti. L’unica cosa che si riesce a capire bene è l’intenzione, il modo, in cui un concetto viene esposto. Ed ecco che a cogliere l’attenzione non sono più le idee che si esprimono, con annesse architravi dialettiche di sostegno, ma, ad esempio, il fervore con cui vengono espresse, e diventa semplicissimo cadere vittime di assurde bufale come le scie chimiche, il metodo Stamina o qualunque cosa scritta su internet da qualunque fonte non verificabile. Non capiamo quello che le persone ci dicono, quindi spesso le risposte che diamo o sono imprecise o non c’entrano nulla.

Negli ultimi anni l’educazione ha virato bruscamente su questo concetto: “Usare sempre poche parole semplici per esprimere anche il concetto più difficile”. Ma a pensarci bene, non si tratta di una filosofia così saggia da adottare: per badare al pragmatismo le parole difficili e desuete sono indispensabili; sono l’assicurazione della pertinenza e dell’esattezza delle idee e delle informazioni. Sostanzialmente, parafrasare i concetti più complessi con la terminologia più elementare sarebbe come tentare di spiegare le equazioni di Maxwell col solo ausilio delle quattro operazioni fondamentali. Conoscere la lingua italiana vuol dire dunque padroneggiare i mattoni che la compongono e la struttura che tiene uniti gli stessi, non con lo scopo di erigersi a paladini del classicismo e della tradizione, ma al fine di comprendere che la lingua è uno strumento e come tale si evolve a seconda delle esigenze che deve soddisfare.

Non conoscere la grammatica può voler dire essere svogliati sui banchi di scuola, ma non avere contenuti e di conseguenza nulla da esprimere vuol dire essere ignoranti, incompresi e incomprensibili, e incapaci di discernere persino il proprio bene. Il discorso è molto più sottile di un “dobbiamo imparare che caffè ha l’accento grave e perché ha l’accento acuto”, dobbiamo prestare attenzione a non essere banali, a non ripetere ciò che abbiamo sentito dire come un mantra, ma riflettere, sviluppare concetti che siano personali ed esprimerli con parole che si adattino ad essi alla perfezione.

Ironia della sorte, la struttura stessa dell’articolo è l’esempio lampante di tutto ciò che Serianni sta tentando di denunciare, e fa da didascalia illustrativa a se stesso. Pertanto, quale chiusura migliore di questa?

Cosa non va nell’insegnamento dell’italiano a scuola? Più saggistica e meno Dante?

Ci scusi, Serianni. So che è tremendo parlare al vento, ma non è colpa nostra: l’unica cosa che ci hanno insegnato è a non dire “se farei”.