La pertinenza delle parole

Avrei voluto scrivere questo articolo in condizioni adeguate, che si confacessero alla serietà ed al peso degli argomenti trattati. Ahimè, la vita è frenetica, e io sono seduta al tavolo della cucina in pigiama mentre il minestrone borbotta sul fornello, e tento di comporre qualcosa di sensato tra una mescolata e l’altra.

Mi sono imbattuta stamattina in un’intervista a Luca Serianni, che per chi non lo sapesse è un linguista e filologo italiano, nonché professore di storia della lingua italiana alla Sapienza. Nel suo ambiente è un pilastro, una delle figure più importanti e rispettate, anche se devo ammettere che anch’io, prima di incappare nella porta del suo studio nella facoltà di lettere, non avevo la più pallida idea di chi fosse. A parlare, pertanto, non è esattamente il primo blogger anticonformista ed autoreferenziale con una conoscenza della materia approssimativa, traballante ed acquisita online (tipo me). L’intervista in questione, che trovate qui, si intitola “Se i ragazzi italiani non sanno l’italiano”.

So cosa state pensando, perché l’ho pensato io in primo luogo: ecco l’ennesimo pippone inutile sulle nuove generazioni di braccia rubate all’agricoltura, sulla scuola da riformare (perché evidentemente vi ricade sopra ogni singola frazione di colpa per qualunque problema affligga o abbia afflitto l’umanità dai tempi delle ruote quadrate fino a quelli moderni o persino futuri), sulle famiglie troppo invischiate nella frenesia di questo satanico presente per poter garantire ai propri figli un’educazione anche solo approssimativamente vicina al minimo sindacale, sui social network che hanno demolito e poi polverizzato una lingua ricca e meravigliosa riducendola ad incomprensibili e gutturali abbreviazioni. Fortunatamente, nulla di tutto questo. Si parte da un assunto abbastanza semplice: stando ai dati PISA (Programme for International Student Assessment, l’indagine promossa dall’Ocse), il 20% degli studenti italiani, iniquamente distribuiti tra nord e sud, “non conosce la propria lingua”. E cioè?

Ma cosa significa non sapere l’italiano? Serianni pesca tra i quotidiani degli ultimi giorni. “Alla fine delle scuole superiori un ragazzo dovrebbe essere in grado di capire un articolo di fondo”.

Capire un articolo di fondo, ecco tutto. La giornalista non è convinta. Tenta di sondare le opinioni del mostro sacro che ha davanti con domande acutissime tipo: “Sta dicendo che i giornalisti dovrebbero scrivere in modo più chiaro?” e via discorrendo. Non si capacita: Serianni non dice nemmeno una volta che siamo delle capre perché scriviamo “qual’è” con l’apostrofo o perché non sappiamo coniugare i congiuntivi o distinguere gli accenti gravi da quelli acuti. Stanca degli approcci indiretti e delle tattiche sopraffine, affonda finalmente il colpo con una domanda diretta:

Qual è il problema più grave nell’italiano scritto degli adolescenti? “Il deficit principale non è l’ortografia, su cui la scuola insiste molto. Un problema ricorrente è la violazione della coerenza testuale, che è poi l’incapacità di argomentare gerarchizzando le questioni trattate. Anche nei temi di intonazione intimistica sorprendono le frasi prive di senso compiuto. Mi viene in mente il tema di un’alunna quattordicenne di un liceo pedagogico. “Noi ragazze siamo molto diverse dai maschi… perché noi cerchiamo sempre l’abbraccio, il bacetto che ci fa sentire al sicuro da tutte le cose che ci sembrano brutte. Al contrario i maschi…” e qui mi sarei aspettato: “sono insensibili”, “pensano soprattutto al sesso”. Niente di tutto questo. “Al contrario i maschi cercano di dare il meglio di loro, ma alla fine non ci riescono”. La ricostruzione dello specifico maschile s’è perduta per strada…”.

Niente, Serianni continua a dire che i problemi sono altri. Parla di coerenza testuale, di gerarchizzazione delle questioni, la giornalista non capisce ed io lo so, la vedo strabuzzare gli occhi e vedo il professore emerito scuotere il capo con rassegnazione. Il deficit non è l’ortografia, dunque, ma l’incapacità di organizzare il proprio pensiero secondo un filo logico chiaro e consequenziale. E quindi? E’ così difficile, Professore! Non abbiamo ancora capito.

“Le cose certo non migliorano con i temi su questioni sociali. Questa volta siamo in una quarta ginnasio, alle prese con un tema su “L’uomo e l’ambiente”. Scrive un ragazzo: “Secondo me si dovrebbe fare la macchina ad acqua ed elettricità per guarire l’ambiente, ma è solo che i politici non vogliono, perché finché c’è il petrolio che è l’unica fonte di energia esistente e la più sfruttata”. Lasciamo perdere tutti gli errori sintattici e lessicali. Quel che davvero non va è la storia della macchina ad acqua, con il facile qualunquismo contro la politica. Siamo sicuri che, diventato adulto, il nostro ragazzetto non sarà tra quelli pronti a giurare sul metodo Stamina?”.

Ormai sono piuttosto certa di dove il discorso stia per andare a parare: è evidente che la povertà lessicale e la totale incoerenza testuale rappresentino degli ostacoli non già per il prestigio della lingua italiana e della sua illustre storia, ma per il suo fondamentale e primario scopo: la comunicazione, e tutto ciò che ne deriva, dalle conseguenze più immediate e quelle più sottili (che poi procederemo ad indagare). Ma la nostra Dylan Dog del nazismo grammaticale non si arrende:

Ma in questo caso la lingua è solo parte del problema.

Sento come una voce che sussurra. “Serianni, ammetta che la lingua italiana è tutta grammatica e nozioni e che questi asini, per poter essere salvati, debbono schiumare il sangue da mane a sera sui libri o in alternativa essere presi a cinghiate sui denti, almeno per celebrare i vecchi fasti. Lo dica, che la lingua è solo questo e che quindi, qualsiasi sia l’altra parte del problema, non ha a che fare con essa.”. Ma il nostro eroe è un duro e non si arrende:

“È una parte essenziale. Conoscere la propria lingua – per tornare alla domanda iniziale – significa padronanza del ragionamento e delle risorse espressive più adeguate per illustrarlo. Tenga conto che un bambino italofono si affaccia alla scuola elementare con un dotazione di 2000 parole, che sono quelle che ti permettono di sopravvivere: il 90 per cento dei discorsi prodotti comunemente dagli adulti. Alla fine della scuola dell’obbligo, questo patrimonio dovrebbe essere molto più ricco”.

Cercherò di essere breve, e se non dovessi riuscirci, non me ne voglia Serianni che ha elogiato apertamente il riassunto e le doti che ci vogliono per svolgerne uno decente. E badate bene che non sto cercando la soluzione al problema. L’unica cosa che mi interessa fare è analizzarlo, e spiegare il motivo per cui Serianni, a parer mio, ha così tanta ragione che in confronto Giordano Bruno è Josef Mengele. Venendo al succo della questione, il problema non è che i ragazzi non ricordano nemmeno un terzo delle centomila regole con relative eccezioni che può vantare la nostra difficilissima lingua. E’ che conoscono 200 parole in tutto, inclusi articoli, congiunzioni, preposizioni semplici e articolate e suoni ad alto contenuto espressivo come ad esempio sbadigli e rutti. Per quale motivo ed in che modo ciò sarebbe più grave e più pericoloso di un “se farei”?. Un errore grammaticale, quindi meramente ortografico o comunque derivante dalla non conoscenza di una regola precisa, va a ledere l’integrità di un’architettura: è un’offesa ad un’eminente e centenaria struttura. E’ sicuramente grave, ma, per capirci, è un errore da correggere con la penna rossa. Un errore lessicale, invece, o comunque l’utilizzo di un termine impreciso che non calza perfettamente al concetto che vuole esprimere è, per tutta una serie di motivi, un errore da penna blu.

Conoscere poche parole equivale ad avere padronanza di pochi concetti: “rem tene, verba sequentur” dicevano coloro dai quali abbiamo ereditato la struttura eminente di cui sopra. Apprendere, e quindi in un certo senso possedere, una gran quantità di idee, vuol dire avere nel proprio bagaglio culturale anche coppie di concetti molto simili ma tra i quali si percepiscono delle differenze, sostanziali o meno. Questo genera una necessità: quella di trovare la giusta descrizione per ognuno di essi. La parola, o la locuzione, che si confà perfettamente a ciò che si ha in mente. E come si apprendono nuove idee? Attraverso le parole. Per riempire quel bagaglio concettuale, dunque, bisogna ampliare il lessico. La conoscenza, pertanto, è totalmente dipendente dal linguaggio. Poche parole, concetto approssimativo: gruppi di concetti più o meno simili, ma comunque distinti, collassano in macrocategorie identificabili con un solo termine.

Similmente per l’incapacità di strutturare un discorso in maniera pertinente: non riuscire ad essere chiari vuol dire mancare di chiarezza a livello ideologico. Le conseguenze di ciò sono abbastanza immediate: si perde la capacità di una comunicazione mirata e precisa, sia in entrata che in uscita. Ci si esprime in maniera sommaria, con argomentazioni imprecise e banali, e la mancanza di parole è causa e conseguenza della vanità delle argomentazioni. Allo stesso modo, non si è più in grado di comprendere le argomentazioni altrui: non c’è modo di comprendere gli articoli di giornale, i libri difficili, i film complicati, i concetti profondi ed importanti. L’unica cosa che si riesce a capire bene è l’intenzione, il modo, in cui un concetto viene esposto. Ed ecco che a cogliere l’attenzione non sono più le idee che si esprimono, con annesse architravi dialettiche di sostegno, ma, ad esempio, il fervore con cui vengono espresse, e diventa semplicissimo cadere vittime di assurde bufale come le scie chimiche, il metodo Stamina o qualunque cosa scritta su internet da qualunque fonte non verificabile. Non capiamo quello che le persone ci dicono, quindi spesso le risposte che diamo o sono imprecise o non c’entrano nulla.

Negli ultimi anni l’educazione ha virato bruscamente su questo concetto: “Usare sempre poche parole semplici per esprimere anche il concetto più difficile”. Ma a pensarci bene, non si tratta di una filosofia così saggia da adottare: per badare al pragmatismo le parole difficili e desuete sono indispensabili; sono l’assicurazione della pertinenza e dell’esattezza delle idee e delle informazioni. Sostanzialmente, parafrasare i concetti più complessi con la terminologia più elementare sarebbe come tentare di spiegare le equazioni di Maxwell col solo ausilio delle quattro operazioni fondamentali. Conoscere la lingua italiana vuol dire dunque padroneggiare i mattoni che la compongono e la struttura che tiene uniti gli stessi, non con lo scopo di erigersi a paladini del classicismo e della tradizione, ma al fine di comprendere che la lingua è uno strumento e come tale si evolve a seconda delle esigenze che deve soddisfare.

Non conoscere la grammatica può voler dire essere svogliati sui banchi di scuola, ma non avere contenuti e di conseguenza nulla da esprimere vuol dire essere ignoranti, incompresi e incomprensibili, e incapaci di discernere persino il proprio bene. Il discorso è molto più sottile di un “dobbiamo imparare che caffè ha l’accento grave e perché ha l’accento acuto”, dobbiamo prestare attenzione a non essere banali, a non ripetere ciò che abbiamo sentito dire come un mantra, ma riflettere, sviluppare concetti che siano personali ed esprimerli con parole che si adattino ad essi alla perfezione.

Ironia della sorte, la struttura stessa dell’articolo è l’esempio lampante di tutto ciò che Serianni sta tentando di denunciare, e fa da didascalia illustrativa a se stesso. Pertanto, quale chiusura migliore di questa?

Cosa non va nell’insegnamento dell’italiano a scuola? Più saggistica e meno Dante?

Ci scusi, Serianni. So che è tremendo parlare al vento, ma non è colpa nostra: l’unica cosa che ci hanno insegnato è a non dire “se farei”.

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