Tanti sono i miei cuori, quante le città che ho abitato.

Vivo a Roma da sei anni. E’ il posto più bello del mondo, ed è casa mia. Mi somiglia più di qualunque altra città, con la sua indolenza e le sue luci giallastre, riflesse sui residui di una nazione che non esiste più da decenni. Ne amo ogni particolare, ogni anima se, come ha detto Gigi Proietti, fossero più di una. Amo il modo in cui mi ha accolta, come una madre, con lo stesso calore e gli stessi battibecchi, il conflitto con qualcuno da cui vorresti più carezze, meno difficoltà, meno attese, anche se è già focolare domestico e anima e appoggio. Roma è una città perfetta per chi ha dolore e non sa in che punto preciso del petto, perché quando le luci del lungotevere illuminano il fiume e Castel Sant’angelo, quando mangi una grattachecca della Sora Mirella con i piedi penzoloni dai muretti dell’isola Tiberina, quando la luce rossastra si infila tra gli archi del Parco degli Acquedotti, non c’è nodo capace di non sciogliersi.

Ma ogni anno, quando viene Luglio, mi manca la mia Pescara. Mi manca la mia infanzia, e le persone che l’hanno resa un luogo ameno della mia memoria. Mi manca il profumo che ha l’aria quando ti svegli presto, il rosso del tetto che vedo dalla mia finestra contro il verde delle colline e il blu delle montagne, l’aria fresca in cui trovi ristoro sulle colline. Mi mancano le vie dissestate del centro, la luce del pomeriggio dietro la Feltrinelli, mangiare la pizzetta di Trieste alle due del mattino seduti coi piedi nella sabbia. Mi manca pedalare verso la città col sole in faccia la mattina quando vado e la sera quando torno. L’odore del sale e del sole sulla pelle bruciata, l’acqua che diventa più profonda e fredda tra due file di scogli, tornare all’ombrellone e addentare una susina. Mi manca più di ogni altra cosa ciò che manca a chiunque sia nato con i piedi nell’Adriatico: il sole che spunta dal mare, l’acqua che diventa blu, poi viola, poi rosa, e si stria di tutti i colori e gli occhi ti diventano iridescenti mentre ti accarezzi la pelle d’oca sulle cosce.

Quand’ero bambina mia madre e mio padre lavoravano entrambi da mattina a sera, quindi io sono una di quelle adulte tipiche della contemporaneità che si trascina dietro un’ansia abbandonica tutta intrisa del ricordo delle mani sulle sbarre del cancello ed il torace scosso dai singhiozzi mentre mamma se ne va, ed anche se poi torna, tutte le mattine se ne va. Ho passato tutte le prime quattordici estati della mia infanzia con i genitori di mio padre. Posso dire, senza tentennamento alcuno, che nonna Lidia mi ha insegnato l’amore, che come ogni amore dovrebbe essere prescindeva completamente da ogni mancanza ed ogni difetto mio e suo, anche se di suoi ne ricordo pochi. La forza di cento uomini e la dolcezza di cento donne.

Nella sua casa si entrava da un cancello che per me sarà sempre marrone anche se ora è verde, che dava su un piccolo patio. Sulla sinistra le finestre del negozio di mia zia, poi la porta d’ingresso con una tendina, lunghi fili di nylon con spirali di vimini beige e marroni attorcigliate intorno, ne ricordo ancora la consistenza sulle dita. Più avanti il giardino. Un ombrellone quadrato, più piccolo di come lo ricordo, una bouganvillea fucsia come un tetto di fiori sopra l’ombrellone, un abete altissimo il cui tronco lacrimava resina, un albero di limoni, sempre pieno di limoni, un albero di mandarini, che non ha mai dato un mandarino, una pianta di campane degli angeli, enormi e bianche, i gerani, le viole del pensiero, le rose altissime, bianche, rosse, gialle, rosa, la parete col rosmarino e l’albero di fichi bianchi, una pianta di cui non ricordo il nome, i cui fiori erano semi neri prima di sbocciare, una recinzione verde intorno al paradiso dei miei nonni.

Ogni mattina nonno Leandro era già uscito quando arrivavo, i pochi capelli candidi impomatati, la camicia, il gilet e la cravatta, le scarpe sempre lucide, anni prima che fosse scosso da incontrollabili tremori e dolorosi ricordi di guerra, intrecciati alla realtà. La coppola sulla testa e la fiat tipo grigia con due righe disegnate sulle fiancate, una gialla e una arancione. Dal barbiere, poi al porto. Quando tornava, un paio d’ore dopo, sapevo che i rumori del motore e del cancello sarebbero stati seguiti dal suo saluto e dall’odore della mortadella coi pistacchi, tagliata sottilissima, o della pizza col pomodoro, nella carta bianca tutta unta. Metà io, metà nonna. Nonno non ha mai pesato più di 42 chili, lo stesso peso di nonna quand’è morta, 60 chili di meno di quand’era giovane. Intanto, zia pucciava gli oro saiwa nella tazzina del caffè, metà per volta spezzati per lungo, prima di sparire nella porticina bianca che dalla cucina di nonna sbucava nel suo negozio. Reggiseni, maglie, mutande e pigiami. Poi giocavo nel giardino, nel garage, coi fiori, ed erano quelle le rare volte che nonna mi minacciava col battipanni, ma non funzionava, sapevo già che mai mi avrebbe sfiorata. Le tortine di terra, le bambole che facevano il bagno nel lavandino, qualche volta da sola, qualche volta no. Poi i primi libri sulle sdraio all’ombra, ogni tanto le corse per scappare dalle vespe e dai calabroni, che comunque erano più attratti da tutti quei fiori che da una bambina pallida, paffuta e coi capelli crespi. Ricordo più di ogni altra cosa il passo di nonna che faceva avanti e indietro dal garage, e il dolore alle ginocchia quando mi arrampicavo per entrare dalla finestra del bagno e coglierla di sorpresa mentre cucinava, a tutte le ore. E ricordo il colore delle polpette. Le polpette più buone del mondo, dorate e mai marroni, che nessuno ha mai saputo come riprodurre. “Quand’è vecchia, la aiuti ancora la nonna a fare le pulizie?” mentre dopo pranzo passavo la spugnetta gialla sul fornello che mi arrivava a stento al mento. “Certo nonna”.

Poi la quiete sui divani grigi di velluto, caldi come l’inferno, mentre nonno leggeva il giornale e nonna sotto la finestra ci ricamava i corredi, con le dita già gonfie per l’artrite. “Tieni, prendi una pezzetta, un ditale, un ago e il filo verde” e facevo il punto a giorno. “Dammi i polsi, dobbiamo srotolare le matassine” e io mettevo le mani nelle matassine di filo bianco per l’imbastitura che lei srotolava e riarrotolava intorno ai rocchetti. Lei insegnava alle ragazze del quartiere a ricamare, così come suo marito, mio nonno, le aveva insegnato a fare lavori di sartoria. Lui e lei entrambi col filo in mano, la macchina da cucire nera col pedale e la ruota, i loro gessetti, azzurri e quadrati, i metri da sarta e la finestra del salone sul soffitto, piccola, quadrata, che si apriva con un bastone. Il tubo di concentrato di pomodoro rosso con il tappo verde, i parrozzini, il bagno con le pareti rosa, le macchie di sugo che mi toglieva dai vestiti con la trielina, il negozio di zia Luisa che mi faceva sedere sul bancone bianco con i contorni gialli e mi cantava della casetta in canadà o della cinesina che danzava dentro un vaso di porcellana. Le vetrine con i fiori di pesco di plastica e i manichini alti e bianchi.

“Vai a prendere la pasta all’uovo, dagli questi soldi e se non bastano digli che sei la nipote di Lidia” e io piccolissima trotterellavo col vassoio in mano mentre lei mi guardava da casa sua e io mi sentivo adulta e responsabile. Nessuno contraddiceva Lidia, il terrore del quartiere, che quando gestiva il negozio andava a riscuotere a casa dei debitori, senza avere mai paura di nessuno di loro, che ancora a 70 anni andava a fare la spesa al mercato con la graziella rossa e tornava caricando le buste sui manubri. Il donnone che aveva placcato e messo ko la zingara che di notte era entrata nella sua casa, e l’aveva tenuta stretta con un braccio solo mentre chiamava la polizia, e che da giovane portava il marito seduto sulla canna della bici. “Vai a prendere il gelato al nonno”. Bacio pistacchio cioccolato e panna. “Vai a prendermi un pacchetto di sigarette”. Multifilter 100’s rosse per lei, blu per mia zia.

Con gli anni li ho visti avvizzire. La Tipo è sparita, i corredi sono stati completati, il negozio è stato chiuso ed io sono diventata grande. La domenica a pranzo, poi un grosso litigio, poi più niente. Solo le telefonate, la sera a cena, “Pronto?” “Ciao nonni’, sono la nonna, volevo sentire la voce”. Anche io tanto spesso ho avuto bisogno di sentire la voce, ma la ricordo, come fosse ora, la ricordo che ride e che urla, la ricordo che dice “la sera, quando chiudo la porta, le cose veramente importanti stanno di qua, quello che sta di là non mi importa”, o “solo alla morte non c’è rimedio”, “di due paradisi non si può godere”.

Ora nella casa vivono due odiosi vecchi rimbambiti che hanno buttato giù la porta del bagno rosa, lasciato morire gli alberi, cambiato il colore del cancello, della rete. Potrei dire cose sul tempo che passa, su quello che è rimasto, sulla loro morte e sulla loro mancanza. La verità è che volevo fare un viaggio in quegli odori e in quelle atmosfere, perché quella quiete, quell’ordinaria bellezza, mi placa i dolori.

Roma è una mamma, ma Pescara è la mia tenera nonna, e i suoi capelli grigi e la sua mano che tiene la mia mentre mi porta al di là del cancello verde a vedere le bici che corrono quando passa il Giro d’Italia.

“Non cerchiamo attenzioni o compassione: cerchiamo un po’ di sollievo” – La mia storia

“Di queste cose non si parla”

“Non ti lamentare sempre”

“Alle persone devi far vedere la parte leggera di te”

“Quando hai intenzione di accettare il tuo problema?”

Sapete, non mi importa davvero un cazzo di niente di cosa pensiate voi. Non mi importa se crediate o meno che i problemi li abbiamo tutti. Non mi importa se vi hanno insegnato che non si parla e che non ci si lamenta. Io mi lamento, perché mi dà sollievo. Mi lamento, perché mi sembra un modo più delicato di informare le persone che ho intorno, rispetto all’alternativa, che sarebbe prenderli per le spalle, sbatacchiarli contro il muro e dir loro “MI HAI ROTTO I COGLIONI, SMETTI DI DIRE CHE HAI CAPITO, NON HAI CAPITO NIENTE”. Mi lamento perché sono stanca di giustificarmi quando dico che non ce la faccio, che non ci riesco, che non me la sento. “La cosa peggiore che puoi fare ad una persona con una malattia invisibile è farle sentire che deve provare quanto sta male” ed io mi lamento perché sento di dover provare qualcosa a qualcuno, e non voglio farlo più.

Io parlo. Parlo perché non sono l’unica a combattere una battaglia, e so che la mia rabbia tanti non ce l’hanno. Non voglio che chi lotta si senta sbagliato quando non ce la fa, come è successo a me. Voglio raccontare di me, sperando che chi mi legge possa trovare un po’ di forza nella mia forza, un po’ di speranza nella mia speranza, e nel mio orgoglio un po’ di orgoglio per mandare a cagare chi gli fa pesare il suo già pesante fardello.

Ho la sindrome di Ehlers Danlos, che a me piace chiamare “sindrome del collagene cinese”. Non me ne vogliano i cinesi, ma le loro imitazioni fanno cagare, proprio come il mio collagene. Il collagene è quella roba che tiene insieme tutti i pezzi del nostro corpo, una specie di colla interna che serve a dare struttura e forma ai tessuti e li connette tra di loro. In buona sostanza, è l’uovo di quella torta che è il corpo umano.

Avevo un anno e pochi mesi quando ho avuto la prima lussazione della spalla: mia zia mi stava facendo fare il cavalluccio sul ginocchio quando si è trovata praticamente in mano il mio braccio, con la spalla che ballava allegramente fuori dalla propria sede. Dopo l’infarto simultaneo di tutti i presenti, mollai un urletto, mi misi a muovere il braccino finché la spalla non si rimise al proprio posto da sola. Pianterello, e tutto finito. Mi portarono comunque in ospedale, dove si sentirono dire “forse ve lo siete immaginato. La spalla di vostra figlia non è lesionata”. Quel “forse ve lo siete immaginato” mi ha perseguitata, poi, per anni, di dottore in dottore.

Per tutta l’infanzia e l’adolescenza fu un continuo di lussazioni, febbri inspiegate, lividi continui, sanguinamenti incontrollati, dolori, strappi muscolari, cadute, goffaggine, lividi. Fu lì che fui traumatizzata per sempre dallo sport: io, che ero la bambina più traballante del pianeta, dovevo giocare a pallavolo. Per forza. Facevo gli scatti, e mi strappavo. Facevo le schiacciate, e mi lussavo. Avevo dei piedini bruttissimi, tutti mollicci e instabili, e mi ricordo che ero arrabbiatissima perché tutti i bambini salivano scalzi sullo scivolo e io no. Poi scoprii che potevo salirci coi sandaletti di plastica, e fu la prima opera ingegneristica della mia vita.

Crescendo, costrinsi mia madre a farmi mollare la pallavolo e mi iscrissi in palestra. Non era piacevole, specie quando non tenevo la presa con le gambe intorno ai rulli della panca per gli addominali o non riuscivo a coordinarmi sul tapis roulant e mi schiantavo inevitabilmente per terra, sotto gli occhi di tutti. Non era piacevole non fare nessun progresso, ed anzi, provare sempre più dolore, sempre più spesso, sempre più dappertutto.

La palestra non aiutava, il dolore non migliorava, le emicranie mi levavano il sonno, ed i miei genitori allora iniziarono a pensare che forse non bastava aspettare che passasse con la crescita, come suggeriva il mio geniale medico di base. Quindi mi portarono da un ortopedico, due, dieci, venti, finché non approdammo dall’allora medico della nazionale di calcio di cui ometterò il nome perché se lo prendo lo butto sotto con la Panda e non voglio che nessuno risalga a me. Il luminare rise della preoccupazione di mia madre, e le rispose che forse si trattava di “un po’ di lassità generalizzata”. “Ma la bambina si lamenta, dice che ha dolore, si lussa sempre” “Le faccia fare palestra”.

Gli anni passavano, ormai ero al liceo. I dolori erano spesso lancinanti. Facevo spettacoli con la mia pelle super elastica (presente il tipo del Guinness World Record? Lui. Ecco. Io sono come lui) che si allungava dai gomiti, dalle ginocchia, dalle mani. La mia professoressa di educazione fisica era contentissima di avere un’allieva con 24 cm di allungamento oltre le dita dei piedi a ginocchia tese, e che faceva la spaccata e si metteva i piedi dietro la testa senza riscaldamento. Le dita delle mani si piegavano all’indietro tanto che potevo mettere il guanto destro alla mano sinistra e far spaventare mia nonna, ma incredibilmente, non riuscivo a spaventare i medici. Iniziò a manifestarsi la sindrome delle dita blu: le mie dita, improvvisamente, si gonfiavano come salsicce, diventano blu e facevano un male, ma un male, che in confronto levarsi un dente a freddo è una stronzata, e poi restavano blu per giorni finché l’ematoma non si riassorbiva completamente. I dolori peggioravano: le lussazioni colpivano anche le anche (bel gioco di parole eh?) ed un giorno mi accorsi che, a denti serrati, riuscivo a infilare il mignolino tra gli incisivi superiori e quelli inferiori. I miei condili si erano completamente consumati, e dopo due blocchi temporo-mandibolari, uno a bocca chiusa ed uno a bocca aperta, mi decisi a mettere l’apparecchio. I condili sono ancora consumati, ma almeno non mi passa più una melanzana in mezzo ai denti.

In tutto questo, i medici continuavano a dire che andava tutto bene. Che ero sana come un pesce. Ortopedici, dermatologi, fisiatri. Tutto bene. Ma io sto male, dottore, ho dolore, ho dolore ai piedi, sempre, e alle gambe, alla schiena, alla testa, sempre. “Sarà lo stress, studi troppo”. Forse erano invidiosi perché io ero un genio e le loro figlie delle cagne, che vi devo dire.

Un giorno, per caso, come Andrea e Giuliano, incontrai l’uomo che mi ha, a conti fatti, salvato la vita.

Andai dal dottore della scuola, una mattina, perché un dito era esploso e mi serviva del ghiaccio secco. Mi guardò le mani e mi disse: “Aspetta”. Prese un librone, lo sfogliò con l’aria di Archimede che urla “Eureka!” e poi trionfante lo girò verso di me. “Ti hanno mai parlato di questa malattia?”

Sindrome di Ehlers Danlos. Un nome simpatico. Immagino le abbiano dato la laurea solo per pronunciarlo, eh, dottore?

E insomma il dottor Saman, medico iraniano che dalle mie parti non si incula nessuno (e che fra le altre cose, un giorno, si accorse che avevo la rosolia appena aprii la porta del suo studio per chiedergli un oki, che non mi sentivo mica tanto bene), senza che nemmeno gli chiedessi nulla, mi fece quella che oggi è a tutti gli effetti la mia prima diagnosi.

Chiamai allora il centro specialistico di Pavia.

-Che vuole?

-Beh, sapere che tipo ho… (nda: questa malattia ha 6 varianti: tre più comuni, ipermobile, classica e vascolare, e tre più rare)

-Glielo dico io. Che sintomi ha?

*segue breve descrizione*

-Ha il tipo classico.

-E quindi?

-Quindi vada all’IDI. *clic*

Andai all’IDI. “Ehlers Danlos? Ma no. Ma si figuri se ha una patologia così rara. Sarà un po’ di lassità”. “Quindi?” “Niente, vada in palestra”. “E i dolori?” “Saranno psicosomatici”.

Da lì, andai da un genetista. “Ma non è di mia competenza” “Ma è una mutazione genetica” “Sì ma tanto non si può fare niente” ” E quindi che devo fare?” “Vada in palestra”.

Andai in palestra, andai all’università, tutto peggiorò: i dolori, i sanguinamenti, le dita blu, i versamenti venosi, le lussazioni, i dolori li ho già detti ma li ridico perché ormai non riuscivo più a comprare le scarpe normali. Iniziai a perdere la memoria e la capacità di concentrazione, ebbi un po’ di problemi personali (un fidanzato stronzo ed una coinquilina che mi tagliava i vestiti) e crollai. Andai in depressione e iniziai ad avere sfoghi, macchie, ulcerazioni della pelle, qualunque cosa vi venga in mente mi venne. Feci qualunque analisi. Continuava a non esserci niente e continuavo a non sapere cosa fare, cosa cercare. Iniziai a credere di essere pazza. Io, che ero un genio, che lo ero sempre stata, una con la memoria fotografica che non aveva bisogno di studiare la matematica mai, nemmeno prima dei compiti in classe, non mi ricordavo più un cazzo. “Sarà la depressione”. La depressione la curai, ma per i dolori nulla da fare. “Lei sta bene”.

A novembre dello scorso anno, ormai non camminavo più. I miei talloni erano pieni di palle di natura sconosciuta, i miei gomiti si spaccavano senza motivo ed usciva una robaccia bianca che sembrava pus, i miei occhi si riempivano di sangue, i capelli mi cadevano, mi svegliai un giorno col sangue che mi usciva dalle gengive, dal naso, dagli occhi. Chiamai mamma e le dissi “sto morendo” ed a questo punto, amici miei, non c’è più niente da ridere, né da immaginare. Corsa forsennata in ospedale, tac al cervello, ed indovinate? Non c’è niente, signorina, lei si allarma troppo, eh.

Ormai fuori controllo e ad un passo dalle stampelle, mia madre (per mia fortuna) decise che avrebbe risolto lei. Che se i medici dicevano che non c’era niente, lei preferiva credere ai propri occhi, ed alla propria figlia, e non si arrese. Notte e giorno davanti al pc, google, enciclopedie mediche e l’unica cosa che veniva fuori era sempre l’Ehlers Danlos. “Dottore se mia figlia avesse questa sindrome da chi dovrei portarla?” “Eh boh sa non saprei…”.

Notte e giorno, notte e giorno, mentre io ormai mi alzavo dal letto due giorni a settimana, scovammo il centro malattie rare del Policlinico di Milano, dove finalmente approdai qualche mese fa. E finalmente, la diagnosi scritta: Ehlers Danlos. Dopo esattamente ventiquattro, VENTIQUATTRO ANNI di lotte.

Nel frattempo avevo vomitato sangue, e scoprirono anche che il collagene della mia cardias aveva deciso di mollare il colpo, e gli acidi mi stavano corrodendo l’esofago. Ulcera, stadio avanzato. Ricapitolando, al giorno d’oggi, la lista dei miei problemi comprende svariate algie, stortura della struttura ossea di mani gambe piedi schiena e collo, ulcera, tumori molluscoidi, dolori muscolo scheletrici, problemi neurologici, disturbo della memoria, disturbo dell’attenzione, sindrome da fatica cronica, problemi gastrointestinali vari, problemi ginecologici.

Mi alzo la mattina, e fa male. Butto giù le gambe dal letto dopo mezz’ora, e fa male. Maledico tutti i santi, e prendo le medicine. Arrivare in bagno mi costa fatica. Farmi la colazione mi costa fatica. Lavarmi mi costa fatica. Farmi i capelli a volte vuol dire lussazione. Uscire vuol dire arrancare fino alla fermata sperando di trovare posto a sedere e una vettura condizionata. Svenimenti molteplici, dolori ai piedi, poi c’è la salita dell’università, quando arrivo sono tutta sudata e ormai praticamente è ora di pranzo. Poi provo a studiare, e non capisco, non mi ricordo, cado nello sconforto. Torno a casa con i piedi gonfi, le ginocchia che cedono, lo zaino che pesa, e penso che sono stanca, e che fa male, e che voglio piangere, e a volte, vaffanculo, lo faccio. Che mi guardino, è l’ultima cosa che mi importa. Cerco di fare quelle quattro faccende di casa di base, a volte non ce la faccio, nemmeno a mangiare, e mi butto sul letto.

E da fuori non si vede niente. “Però sembra che tu stia bene”. Un cazzo. Un cazzo di niente. E’ una lotta. Tutti i giorni, lotto. Lotto come un leone anche quando devo scegliere se farmi la doccia o fare la spesa. Lotto come un leone quando voglio vedere i miei amici e non dire loro l’ennesimo no. Lotto contro me stessa per chiedere un aiuto e vedere quegli sguardi di chi pensa che ti lamenti senza motivo. Lotto contro il dolore, lotto per condurre una vita normale, per laurearmi, ho lottato per lavorare come commessa saltuaria e mi sono dovuta arrendere al fatto che 8 ore in piedi volevano dire accasciarmi fuori dai negozi piangendo per ore prima di trovare la forza di tornare a casa. Ma lotto ancora, lotterò ancora ed oggi, finalmente, dopo ventiquattro anni, ho conosciuto il dottor Marco Castori, che mi ha detto “non preoccuparti, possiamo fare qualcosa. Io so cosa hai. So che fa male. Ti aiuteremo, andrà meglio, possiamo farti stare meglio”.

Ed io ero così felice che ho singhiozzato di gioia, che ho sentito quel nodo che mi porto dentro da tutta la vita finalmente sciogliersi. Non mi importa se funzionerà del tutto, in parte o per niente. Io voglio una speranza, volevo solo quella, ed ora ce l’ho. Ed ho qualcuno accanto che capisce, una famiglia, una madre che non si è arresa, degli amici che sanno e che non pretendono che io faccia ciò che non riesco a fare, un fidanzato che mi aiuta senza che io debba più chiedere, ed il cazzo che me ne frega delle vostre ramanzine sulle mie lamentele e sul mio “ingigantire il dolore”, oggi, è così grande che sono certa che, affacciandovi alla finestra, lo vedrete lampeggiare in lontananza, ovunque siate.

Questa è la storia di come sono arrivata a ritrovare la speranza. Qualsiasi cosa succeda, non perdetela di vista. E non lasciate che il dolore vi definisca, o che vi definiscano la cattiveria e l’incomprensione delle persone. Quello che vi definisce è il coraggio. Trovatelo, sempre.